Vi proponiamo un articolo di Danilo De Masi che è il presidente della Fondazione Giuseppe Saragat. Danilo tiene a precisare (con riferimento alle considerazioni espresse su gran parte delle ONG) di non essere contrario ad un accoglienza “mirata e organizzata” (quale fu quella degli Italiani – anche pre-unitari – nelle Americhe). E dubita addirittura che la criminalità degli stranieri sia percentualmente superiore a quella dei nostri connazionali: si tratta solo di una superficiale comparazione tra categorie sociali differenti.


Migrazioni in entrata ed in uscita, all’interno ed all’esterno dei confini nazionali
di Danilo De Masi
La stampa italiana ha da tempo smesso di “fare informazione”, in un Paese che non ama l’approfondimento dei temi e delle notizie e che è ormai alla mercé inconsapevole di quanti sono frutto inconsapevole del sessantotto. Si parla di immigrazione clandestina, confondendo chi fugge da zone di guerra, chi cerca un futuro migliore (potendo pagare diecimila dollari a chi sta dietro agli scafisti umanitari”) e chi – latitante nel suo Paese di origine – cerca una nuova identità dove (in Italia) è possibile anche ciò che sarebbe vietato e può restare in liberà anche chi è stato condannato.
Si scambia chi sceglie (potendoselo permettere) di compiere gli studi all’estero, poi si trova bene e riceve un’offerta di lavoro ancor prima di rientrare in Italia per cercarsene uno, forte dell’acquisito bilinguismo, con i giovani che una qualche professionalità (barista, cameriere, tecnico informatico, infermiere od ingegnere) già l’hanno acquisita e stanno lavorando in Italia ma preferiscono spenderla dove la remunerazione è più confortante e dove il successo o la progressione di carriera è meno “condizionata” di quanto non sia in Italia. Dovrebbero insospettire sia per l’intelligenza dei proponenti che per la mariuolaggine le proposte di aiuto economico tese ad incentivare il “rientro dei cervelli” già “fuggiti”.
La problematica – per noi italiani – ha radici lontane, rintracciabili più nella letteratura “collaterale” od epistolare che nella storiografia.
Ai tempi di Giulio Cesare, c’era chi corrompeva i soldati romani per essere portato schiavo a Roma in aggiunta ai prigionieri effettivi: un prigioniero / captivus poteva stare meglio da servo a Roma che a casa propria da libero; inoltre era probabile che il servo venisse “liberato” e proseguisse il lavoro (si mettesse in proprio) con soddisfazioni economiche. Il cosiddetto “ascensore sociale” funzionava. Cicerone aveva “conseguito il Master” in Grecia. Diciotto secoli più tardi il Principe di Salina, Fabrizio Corbera (più noto come Il Gattopardo) mandò i due figli maschi in collegio in Inghilterra; terminati gli studi, poi aprirono un’attività di import-export dapprima con il Regno di Napoli poi con il Regno d’Italia ed altri paesi.
Secondo un minimo di indagine o per esperienze dirette, l’approdo e l’insediamento in un paese occidentale per mettere a frutto una professionalità acquisita in casa, costa (tra “biglietto” degli scafisti umanitari, spese per raggiungere un porto convenzionato tra ONG, mafie varie, organizzazioni più o meno terroristiche) circa cinquanta/centomila Dollari/Euro, parte dei quali possono essere saldati con donne da avviare – più o meno consensualmente – alla prostituzione.
Importo simile a cinquanta/centomila dollari, anche se in euro od in sterline consente ad un italiano, greco, slavo, ex sovietico, di compiere un corso di studi universitari, con relativo mantenimento, in uno dei Paesi dove si ritiene di poter costruire un futuro migliore per sé o per la propria famiglia. Sono note le destinazioni degli italiani, ma  nessuno registra (negli ultimi trent’anni, ovvero dopo la fine della prima Repubblica) il progressivo estinguersi del flusso di studenti che dai Paesi vicini, dal Medio Oriente e dall’Africa venivano a laurearsi a Bari od a Napoli, poi a Roma. Persino nelle nostre Accademie Militari (dalle quali un tempo uscivano futuri governanti esteri) non mi pare che ci sia pressione per accedere.
Danilo De Masi

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