E’ recentemente scomparso Vittorio Mathieu, filosofo teoretico, morale ed epistemologo, autore di centinaia di pubblicazioni e studioso di Kant.
Lo vorrei ricordare per un’opera fondamentale per una filosofia del diritto penale di impronta autenticamente liberale, il cui titolo — “Perché punire” — ne rivela l’ambizioso scopo: dare una risposta all’interrogativo morale che ha sempre interessato l’uomo di ogni epoca, in quanto il concetto di punizione è intimamente connesso a quello di giustizia. E il cui sottotitolo è di sconcertante attualità, benché il saggio sia stato scritto nel 1977: “Il collasso della giustizia penale”.
Collasso che, per Mathieu, è determinato dal modo in cui l’Illuminismo prima, il  positivismo poi e l’umanitarismo dopo, hanno cercato di rispondere alla domanda sul fondamento morale della pretesa punitiva: giustificando la pena assegnandole uno scopo, o addirittura negandola.
Il rifiuto della pena è dovuto all’essenza morale della stessa, che la distingue da altre forme di sanzione. Essa reca in sé il senso del castigo e dell’espiazione, concetti che richiamano quelli della colpa e della responsabilità, che a loro volta presuppongono la libertà del volere e di scegliere tra il bene e il male. Negando la pena si nega all’individuo la qualità di essere morale, intrinseca alla natura umana: “c’è libertà se ci sono ‘individui’”, scrive Mathieu. L’incedere argomentativo di Mathieu parte da un postulato che, ammette, è indimostrabile: l’uomo è responsabile delle sue azioni. La conseguenza di tale ipotesi assunta per data è che “è giusto, per il bene e per il male, che gliene derivi una sanzione: è giusto, insomma, che chi ha commesso il male ne paghi il fio”. Le teorie che negano l’uomo quale essere moralmente, perciò giuridicamente, responsabile, negano quindi la sanzione, e con essa la giustizia.
La pena, a differenza della vendetta, è oggettiva e formale, e ha la funzione di rendere giustizia, non quella di soddisfare il bisogno psicologico della punizione vendicativa, che è informale e svincolata dal principio dell’equità e della simmetria. Si sarà giunti a giustificare la pena solo quando si ammetterà che “essa è fatta, in primo luogo, per il reo, non per terrorizzare altri eventuali nemici, e ancor meno per soddisfare a puro gusto di crudele rivalsa da parte del danneggiato”.
Quindi dove c’è libertà c’è sanzione. La sanzione penale, che presuppone la libertà in quanto richiede la colpa, e quindi la responsabilità, è presidio della libertà stessa. Negare la pena significa negare la responsabilità e quindi la libertà.                                                         “La giustizia è (…) il sistema della libertà: un sistema che mette in rapporto tra loro più individui liberi, sottoponendoli a quelle leggi che permettono loro di pensarsi e di esistere come liberi.” In tale frase il pensiero giusfilosofico di Mathieu si rivela molto più liberale di quanto non lo sia il tradizionale liberalismo giuridico di origine illuministica.                      Tra i pochi pensatori contemporanei, forse unico, ad ispirarsi al retribuzionismo kantiano, Mathieu ha avuto il merito di elaborare una teoria, morale e giuridica, della pena, sostenendo la necessità della stessa per preservare le condizioni che rendono possibile l’esistenza di un ordine sociale basato sulla libertà individuale, dunque sulla responsabilità.
La giustizia è simmetria dei diritti, che implica reciprocità: il loro riconoscimento in capo a tutti implica che ciascun individuo possa esercitarli entro i limiti dell’esercizio reciproco, ed è definita da Mathieu come il “sistema della libertà di volontà finite sottoposte a leggi”. Sono le leggi della giustizia a rendere compatibile l’esercizio della libertà di ciascun individuo con quella degli altri individui e alle leggi della giustizia deve conformarsi il diritto, sia civile che penale.
Tuttavia norme civilistiche e norme penali assolvono a compiti differenti: mentre le prime regolano i rapporti tra comportamenti liberi, le seconde tutelano la possibilità stessa che tali rapporti possano formarsi. Di qui la distinzione tra sanzione civile e sanzione penale: la prima consegue alla violazione di una regola interna al rapporto, la seconda è la conseguenza di comportamenti che mirano ad impedire che il rapporto giuridico possa instaurarsi e che si pongono, quindi, in conflitto col sistema della libertà: in ciò sta l’originalità del pensiero di Mathieu.
La metafora del gioco da egli utilizzata per esplicare la differenza ontologica tra la sanzione penale e le altre sanzioni giuridiche è di chiarezza esemplare. Nel gioco formalizzato, come per esempio il bridge, sono previste sanzioni alla violazione delle regole, volte a compensare lo squilibrio che l’infrazione ha generato producendo un indebito vantaggio al trasgressore, a fronte di uno speculare svantaggio a carico del giocatore avversario. Queste sanzioni sono assimilabili, per funzione, a quelle del diritto civile, che hanno natura tipicamente ripristinatoria o compensativa e puniscono, per l’appunto, la violazione delle regole del rapporto, contenute nelle norme civili. Le norme penali, invece, non contengono le regole del gioco perché sono volte a punire condotte impeditive della stessa possibilità di giocare, in quanto il trasgressore si pone al di fuori del gioco.
La legislazione penale, dovendo tutelare la precondizione del libero esercizio dei diritti individuali e dell’incontro di volontà, protegge un interesse che non è individuale ma sovra individuale, in quanto comune a tutti gli individui che compongono una data società. Essa ha carattere pubblico perché difende un interesse pubblico, quello di tutelare il sistema di libertà in nome della giustizia.
L’interesse pubblico non va confuso con quello sello stato, che alla giustizia è sottomesso come lo sono i cittadini: di qui la sua primaria ed essenziale funzione di dare imperatività alla legge penale, infliggendo la pena non per tutelare se stesso o la società, ma per difendere la possibilità stessa dello stato e della società.
Non è la legge penale servente alla protezione dello stato ma viceversa, afferma Mathieu.   Il diritto penale allora è il fine e lo stato è il mezzo: l’esatto contrario di quanto postulato dagli illuministi, che attribuiscono allo stato il compito di proteggere la società per mezzo della legislazione penale; di talché la pena è il mezzo di cui lo stato si serve per difendere la società e con essa se stesso.
La pena come mezzo e non come fine ne comporta una concezione in chiave utilitarisitica quale misura preventiva strumentale al potere da cui è sancita e comminata, con ciò che ne consegue in fatto di tutela dei diritti individuali.
A differenza di quella illuminista di stampo utilitaristico, fatta propria da liberalismo giuridico, quella elaborata da Mathieu è un’autentica concezione liberale della pena, dal momento che egli ne individua lo scopo nella giustizia simmetrica quale sistema della libertà, piuttosto che nella protezione della collettività, che conduce alla strumentalizzazione dell’individuo in favore dell’interesse collettivo. “Che debba esistere quel sistema dipende da un’opzione: ma, se si opta per la libertà, non si può fare a meno di ciò che la rende possibile; e in questo senso accettare la necessità della pena è identico a optare per la libertà”. Non c’è quindi libertà senza pena.
Purtroppo il suo pensiero è rimasto fin troppo confinato e isolato, misconosciuto o sconosciuto agli stessi liberali contemporanei. Un solista se vogliamo al quadrato, dal momento che il suo pensiero sulla pena è minoritario non solo perché afferente al retributivismo morale, considerato dai più superato, ma perché nell’ambito di esso si colloca al di fuori del preponderante indirizzo scolasticotomista.
Andrea Ciandri

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