Lezione della Scuola di Liberalismo di Messina – 24 marzo 2000

Come avviene per tutti i concetti fondamentali della politica, anche per il concetto di libertà vi sono dei momenti in cui , per l’emergere di novità e di diverse situazioni storiche, si impone un ripensamento. Oggi è forse venuto meno il momento di ripensare alle condizioni della libertà. In altre parole, dato che stiamo entrando in un momento di transizione, dobbiamo chiederci se il concetto di libertà che abbiamo ereditato sia ancora adeguato e, se deve essere riformulato, tenendo conto di che cosa.

L’avvento del cosiddetto “processo della globalizzazione” rappresenta uno di tali momenti e, come tale, ci impone di rivedere alcune questioni fondamentali. Anzitutto quella se l’estensione delle competenze dei regimi politici democratici sia compatibile con il costituzionalismo liberale e con la libertà individuale così come – sulla scia di Hayek e di una tradizione ancora più antica – li abbiamo finora intesi.

Questo problema diventa ancor più inquietante se si pensa che le condizioni sulla cui base un regime politico democratico ha finora garantito i diritti naturali della tradizione liberale, semplicemente non esistono più. I regimi politici, democratici frutto dell’evoluzione degli Stati nazionali, in realtà, rischiano infatti di essere travolti da quell’incremento degli scambi e dell’interdipendenza internazionale che ha reso obsoleto il processo decisionale democratico mediante il quale, attraverso libere elezioni, una nazione sceglieva il proprio “stile di vita” e con ciò stesso – sia pure per un tempo limitato – creava ordine tramite la produzione legislativa di diritto entro una data entità territoriale ed esercitava la cosiddetta sovranità. In realtà la globalizzazione dei mercati rende impossibile il processo di produzione di ordine tramite l’attività legislativa.

La produzione di “certezza” riguardo alla possibilità di realizzazione delle aspettative individuali e sociali – ciò che costituisce nel medio e nel lungo termine, lo scopo principale di una costituzione, e di una costituzione liberale in particolare – tende così ad essere sempre meno dipendente da un meccanismo di scelta democratico. Questo meccanismo, infatti, non è più in grado di controllare il mercato, e potrà tentare di produrre certezza solo a costo di aumentare la regolamentazione della sfera economica e sociale. Ciò che, a sua volta, produrrà inevitabilmente nuove incertezze, e soprattutto come ben sappiamo, una riduzione della libertà individuale.

Di conseguenza, non essendo più possibile scegliere democraticamente uno “stile di vita”, lo stato democratico si mostra nella sua natura di strumento con il quale una maggioranza impone il suo volere ad una minoranza. Come se ciò non bastasse, esso realizza un’ulteriore disparità che consiste nel fatto che mentre i cittadini possono, in pratica, scegliere soltanto i loro rappresentanti, questi ultimi possono decidere su tutto in quanto monopolistici detentori del potere di produrre diritto.

La fusione tra la tradizione politica democratica e quella liberale ha così finito per produrre un ibrido nel quale si è ormai persa la consapevolezza che l’unica possibile giustificazione dello stato è quella di garantire gli individual natural rights. Detto diversamente, quello di favorire la diffusione di quelle conoscenze che avrebbero potuto consentire agli individui di fare attendibili previsioni circa il soddisfacimento delle reciproche aspettative soggettive. Inteso come sistema di trasmissione di informazione tramite prezzi, il mercato costituisce il principale veicolo per raggiungere tale fine.

Uomini in genere saggi e prudenti, i liberali classici – e la loro costante lotta contro i monopoli ne è la prova – erano consapevoli – anche se talora sbagliarono i mezzi per raggiungere il fine – di ciò che era necessario perché si avesse un ordine politico liberale. L’ordine veniva identificato con quell’insieme di regole che nel tempo si era mostrato in grado di consentire di fare previsioni attendibili riguardo alle conseguenze delle azioni umane compiute per raggiungere fini soggettivi. Ma essi sapevano anche che tale tipo di ordine politico non poteva fondarsi su disparità di conoscenze, e di chances tra gli individui troppo marcate e rigide. Esso, infatti, non è il prodotto né della virtù civica, né della volontà politica, né di un “contratto”, ma il frutto di una sedimentazione di ragione e di esperienza riguardanti la maggiore o minore capacità di alcune regole di condotta di produrre conseguenze desiderate e, soprattutto, universalizzabili.

Di conseguenza – anche perché questa loro saggezza e prudenza non era disgiunta da una salutare dose di scetticismo – i liberali classici sapevano anche qualcosa che raramente rendevano pubblica : ossia che la possibilità per gli individui di conseguire i propri fini al costo e con le conseguenze inizialmente previste, non ha relazione con la loro bontà, eticità, o verità, quanto, più banalmente, con circostanze talora casuali, che rendano possibili le condizioni attese. In altre parole, con il verificarsi delle previsioni sul comportamento degli altri individui che entrano in combinazione con le azioni tendenti al raggiungimento del fine in questione. Ovviamente, l’ineguale distribuzione della conoscenza nella società, fa sì che il contemporaneo concorrere di tutte queste condizioni non possa considerarsi esclusivamente un fenomeno “naturale” o “spontaneo”, ma sia favorito dal rispetto di certe regole. Per fare un esempio, un individuo, sempre per via della diseguale distribuzione della conoscenza, potrebbe adoperarsi per impedire ad un altro individuo di conseguire un fine perché convinto – in base alla conoscenza posseduta in quel momento – di riceverne (presto o tardi) un danno che invece non ci sarebbe stato se egli non ne avesse ostacolato l’azione.

Pertanto, le possibilità individuali o sociali di conseguire un fine possono essere negativamente condizionate da un’inesatta o falsa rappresentazione della realtà. Ad esempio, la proprietà privata ha la funzione di consentire agli individui la possibilità di fare questo tipo di previsione, ma una conoscenza distorta di questa sua funzione – come avviene comunemente nel caso dell’ideologia marxista e collettivistica – può non consentire agli individui di accorgersi che si tratta delle migliore soluzione per raggiungere quel fine, e di indurli così a preferire sistemi economici e sociali nei quali la negazione della funzione della proprietà produce una povertà diffusa che aggrava, anziché risolvere, il problema della scarsità dei beni.

Ma gli esponenti del liberalismo classico erano consapevoli anche del fatto che non è possibile prevedere tutte le conseguenze involontarie connesse all’attitudine dell’uomo a scegliere di soddisfare i bisogni immediati a scapito di quelli futuri. In questa prospettiva, il “compromesso con lo Stato” può essere interpretato come la conseguenze dell’essere lo Stato la proiezione, o il risultato, del desiderio di certezza di individui dotati di una conoscenza limitata e fallibile circa il futuro soddisfacimento delle aspettative individuali. In altre parole, di una condizione naturale di incertezza che non potrà mai essere superata.

Di conseguenza, il compromesso dei liberali classici tra naturalità dei diritti individuali e una forma limitata di potere può essere visto come il mezzo per far sì che i diritti naturali, per quanto possano non essere universalmente riconosciuti nei loro effetti positivi per l’intera società, vengano comunque, al pari delle aspettative individuali, pubblicamente riconosciuti e garantiti.

Ciò tuttavia ha lasciato irrisolto il problema di come evitare i possibili abusi da parte di coloro che si sarebbero trovati (sia pure come conseguenza di una scelta democratica) nella condizione di dover decidere sui diritti, sulle aspettative da riconoscere, e sulla priorità del loro soddisfacimento. Nel rimettere questa decisione ad un sistema maggioritario, ciò che ha, ma non sempre, reso possibile solo la divisione ma non la riduzione del potere, il liberalismo classico ha posto le premesse alla sua dissoluzione nella teoria democratica. E questo suo fallimento è testimoniato dalle parole con le quali Hayek, nell’introduzione a Law Legislation and Liberty riconosce che “the first attempt to secure individual liberty by constitutions has evidently failed”.

Dati i tempi in cui la scelta democratica è stata fatta, io credo che possiamo se non altro comprenderne i nobili motivi : salvare quel tanto che era possibile della libertà individuale dagli attacchi dei totalitarismi. Ciò che tuttavia non significa giustificare l’atteggiamento dei Liberals, ossia di coloro che, pur richiamandosi a una parte della tradizione liberale, non si sono ancora resi conto del fatto che quello con la tradizione e con i valori della democrazia è soltanto uno degli inevitabili compromessi che ha caratterizzato la vita di una tradizione di pensiero plurisecolare.

In altre parole, è opportuno chiedersi se le critiche che il Libertarians muovono al Classical Liberalism non siano in realtà rivolte al suo compromesso con la tradizione democratica, e se la fine dell’illusione democratica renda la distanza tra Libertarism e Classical Liberalism meno profonda e insuperabile di quello che si pensa comunemente. Per fare un esempio, sostenendo che “the dogmatic democrat, feels, in particular that any current majority ought havethe right to decide what powers it has and haw to exercise them, while the liberal regards it as important that the powers of any temporary majority be limited by long-terms principles”, Hayek esprime con parole diverse (e forse più caute) la stessa propensione dei libertari anarco-capitalisti a sostituire il principio della obbligatorietà giuridica e politica dello Stato democratico con quello della libertà di appartenenza e di scambio.

La polemica di certi esponenti del Libertarianism nei confronti della “propensione” statalistica del Classical Liberalism si fonda quindi su atteggiamenti che, essendo connessi a circostanze storicamente definite, possono anche essere superati.

Da un altro punto di vista, si potrebbe rimproverare ai Libertarians di aver troppo indugiato su una considerazione spiccatamente negativa dello Stato visto essenzialmente come un apparta di potere fondato sulla coercizione e sulla violenza. Detto diversamente, di aver trascurato la circostanza che una delle funzioni essenziali dello Stato – e ciò che ne ha reso possibile una vita così lunga, anche se tormentata – è quella di produrre artificialmente, in tempi brevi, quella certezza riguardo all apossibilità di realizzazione delle aspettative individuali, che, data la ineguale distribuzione sociale della conoscenza si sarebbe potuto ottenere soltanto in tempi così lunghi da superare quelli dell’esistenza dei singoli individui. La produzione legislativa del diritto (con tutte le sue ricadute nella sfera economica e sociale) aveva appunta la funzione di consentire agli individui di fare queste previsioni. Ma il fatto che l’inflazione legislativa e la produzione politica del diritto da parte di mutevoli maggioranze democraticamente elette, abbiano avuto come conseguenza indesiderata l’incremento dell’incertezza del diritto, non significa che si sia trovato un modo di produrre la certezza in grado di eliminare tutti gli inconvenienti del modello statalistico-democratico.

Questo problema non solo non è stato risolto dal mercato – per via del fatto che i tempi entro i quali esso produce certezza non sempre corrispondono ai tempi entro i quali gli individui desiderano avere informazioni attendibili riguardo alla realizzabilità delle loro aspettative – ma è reso di ancor più ardua soluzione dall’avvento di un’economia globalizzata la quale incrementa anziché ridurre l’incertezza individuale e sociale. Può infatti accadere che i tempi del mercato globalizzato possano essere tanto lunghi che il tempo impiegato da un individuo per tentare di dar ordine a una tale quantità di informazioni e di aspettative può essere così lungo che quando tale lavoro sarà terminato le condizioni esterne potrebbero essere radicalmente diverse, e comunque tali da renderlo pressoché inutile.

Indubbiamente si può osservare che è ormai inevitabile uscire dall’inestricabile intreccio tra la dottrina dello Stato nazionale e teoria politica democratica che ha caratterizzato e caratterizza la filosofia politica occidentale. Ma ci si deve anche chiedere quale tipo di istituzione, se non qualcosa che assomigli allo Stato, possa favorire lo scambio tra le aspettative individuali e una persistente situazione di scarsità e di distribuzione casuale della conoscenza.

In altre parole, la miglior soluzione di un problema teorico può non essere conosciuta, o riconosciuta, come tale poiché i tempi della sua affermazione possono essere molto lunghi. Tutto ciò può anche avvenire quando quella che si scopre essere una falsa soluzione, o una soluzione che contiene un gran numero di conseguenze indesiderate, ha avuto modo di mostrare la sua erroneità. In realtà, i tempi e le modalità di affermazione della miglior soluzione di un problema possono non solo essere tanto lunghi da renderlo talora praticamente inutile, ma la dinamica di tale affermazione, proprio a motivo di quella ineguale distribuzione sociale della conoscenza, risente di motivazioni diverse dal suo contenuto di verità.

Per fare un esempio, la fiducia che gran parte degli elettori e degli stessi studiosi continua a riporre nello Stato come “entità” capace di risolvere il problema della creazione artificiale della certezza individuale e sociale deriva in gran parte dal fatto che per secoli esso è stato in grado di adempiere, più o meno adeguatamente, a tale compito. Ma anche dal fatto che – se non avvengono eventi che distruggono le certezze secolari – in genere si è assai poco propensi a cambiare un’istituzione conosciuta ( nel bene o nel male) con una che non è stata mai messa alla prova.

Il problema che vi mi pongo ha in realtà due principali aspetti.

Il primo è rappresentato dall’interrogativo riguardante le conseguenze che il depotenziamento della capacità dei regimi democratici potrebbero avere sulla reale esistenza e sul funzionamento di un’economica di mercato, e sull’estensione della libertà individuale.

Il secondo è rappresentato dal fatto che, se tutto questo è possibile, siamo costretti a porci il problema del rapporto tra democrazia e liberalismo in termini molto più drastici di quanto fatto finora, e, soprattutto, a pensare ad una costituzione liberale in termini interamente nuovi. In altre parole, penso che i regimi democratici – che il processo della globalizzazione tenderà a rendere ancor più interventisti come reazione alla loro impossibilità di controllare le ripercussioni interne di fenomeni e di dinamiche che ormai si determinano al di fuori dello spazio in cui si esercita la sovranità degli Stati nazionali – diventeranno sempre meno compatibili con un costituzionalismo liberale.

Restringendo il compito dello Stato a quello di garantire che a tale processo di produzione dell’ordine tutti possano partecipare in condizioni di libertà, la soluzione liberale si configura come qualcosa di diametralmente diverso dal meccanismo democratico fondato sull’attribuzione alla maggioranza della potestà di creare certezza attraverso la produzione di norme e di regolamenti che fissano i rapporti di scambio tra gli individui.

Stiamo in realtà assistendo al declino della cornice concettuale ed istituzionale che, per svariati secoli, ha costituito il punto di riferimento della vita politica della civiltà occidentale. Questa cornice ha consentito di espandere la libertà individuale e di difendere, per quanto possibile, i diritti individuali. Ora il processo di globalizzazione, con la sua omogeneizzazione delle aspettative e dei comportamenti individuali e sociali, rende tutto più difficile. La difesa della libertà individuale non può più essere affidata, come finora si è fatto, al processo decisionale democratico che avviene entro gli Stati nazionali.

Ma, oltre ad essere un valore in qualche misura a priori, la libertà individuale è anche la logica conseguenza del fatto che gli individui sono diversi sia per doti naturali, sia per finalità. Tramite lo strumento della competizione elettorale democratica, lo Stato nazionale ha finora garantito la possibilità di scelta tra “stili di vita” alternativi. E’ indubbiamente vero che i risultati di questa dinamica non sempre sono stati propizi per l’esistenza e l’allargamento delle libertà individuali che rappresentano il fine perspicuo della tradizione liberale. Ma, tutto sommato, non si può negare che in questo modo le possibilità di scelta sono restate affidate ad un meccanismo del quale è stato possibile, in ragionevole misura, prevedere gli esiti. Ed è altrettanto vero che, sulla base delle conseguenze constatate, è stato anche possibile ribaltare decisioni precedentemente assunte.

Ciò che oggi è diventato incerto è appunto la possibilità di scegliere gli “stili di vita” tramite un processo maggioritario. Infatti, alla luce della diffusione planetaria del sistema della concorrenza e della interdipendenza dei sistemi economici, non appare più possibile evitare di essere esposti alle conseguenze di scelte compiute da soggetti non appartenenti alla comunità nazionale e ai quali non abbiamo attribuito né il potere di scelta, né dato il nostro consenso. Detto brevemente, gli Stati nazionali non appaiono più in grado di svolgere la funzione di filtro che hanno finora svolto.

E’ indubbiamente vero che in un mercato concorrenziale “ogni dollaro compra per un dollaro” e che nessuno è obbligato a scambiare, o a partecipare al sistema degli scambi reciproci. Ma è altrettanto vero che la scelta se partecipare o meno a tale sistema è diventata una scelta privata della quale ogni individuo dovrà assumersi direttamente la responsabilità senza poter più pensare di delegarla ad un meccanismo maggioritario. Chi vorrà, potrà indubbiamente “chiamarsi fuori” e decidere, consapevole delle conseguenze, che di questo sistema di scambi e di interdipendenze globali non vorrà far parte.

E potrà anche crearsi una nicchia (privatopia) entro la quale, da solo o insieme ad altri, cercare di realizzare un complesso di aspettative individuali alternative, magari fondate su valori diametralmente opposti a quelli dell’economia di mercato. Uno dei vantaggi della globalizzazione, conseguente al decesso del concetto di sovranità degli Stati nazionali – ovvero alla scelta democratico-maggioritaria di uno “stile di vita” la cui adozione diventa obbligatorio sia per la maggioranza, sia per la minoranza – sarà appunto questo.

Tuttavia, esso implica anche l’assunzione di responsabilità individuali molto più pesanti di quelle che ci si assumeva delegandole ad un processo di scelta di tipo maggioritario. Alla libertà individuale vengono così a schiudersi nuove ed impensate frontiere, ma parimenti, mai come oggi il motto “sapere per deliberare” è diventato così angosciante. Il tradizionale paracadute della solidarietà sociale e nazionale diventa così uno strumento al quale non appare più possibile ricorrere. In altre parole, è indubbiamente vero che si potrà acquisire la piena libertà di scegliere di “chiamarsi fuori”, ma mai come in questo caso chi esce avrà minori possibilità di rientrare, e dovrà anzi far fronte individualmente a tutti i possibili imprevisti e a tutte le possibili avversità.

Il processo di globalizzazione non è un destino ineluttabile, ma una scelta che avrà dei costi che non debbono essere sottovalutati.

Per affrontare questo problema dobbiamo ancora una volta prendere le mosse dal fallimento del tentativo dello Stato nazionale di produrre certezza, sicurezza e di essere il garante della libertà individuale e dei diritti naturali. Alle difficoltà che si è trovato di fronte chi ha cercato di conciliare Stato e mercato si sono sempre aggiunti i tentativi di attribuire al mercato il fallimento delle politiche interventistiche degli Stati nazionali e delle democrazie interventistiche. Inoltre, poiché in molti Paesi il mercato è ancora visto come un “male”, e poiché in tali Paesi gli intellettuali statalisti hanno ancora una posizione dominante nella stampa e nei media, può non risultare difficile attribuire al mercato e al capitalismo i costi di quello che invece è il fallimento dello statalismo. Magari accusando il mercato – come altre volte è successo – di non essere “etico” o “razionale”, e proponendosi come i suoi razionalizzatori e moralizzatori.

Da questo punto di vista ci potremmo trovare di fronte ad una situazione non dissimile da quella che portò al potere i regimi totalitari. Sebbene essi si differenziassero per molti ma secondari aspetti, avevano in comune l’ostilità nei confronti dell’individuo e del mercato.

La prospettiva per chi si propone di dare un contributo al Liberalismo Classico e al Libertarianism è perciò quella di pensare a qualcosa che possa prendere il posto degli Stati nazionali. Dobbiamo immaginare e creare istituzioni che siano effettivamente in grado di preservare e si estendere le libertà individuali in un mondo nel quale gli Stati nazionali sembrano destinati ad essere sostituiti da un complesso di istituzioni politiche ed economiche in competizione tra di loro al fine di produrre quelle garanzie che gli Stati nazionali democratici non sono più in grado di produrre.

Si tratta di una prospettiva nuova, ed in gran parte inesplorata, con la quale chiunque abbia a cuore il destino della libertà non potrà fare a meno di confrontarsi.

La grande vittima del processo di globalizzazione è quindi lo Stato nazionale moderno così come è stato finora concepito. Se questo è vero dobbiamo anche sforzarci di riformulare il rapporto tra libertà individuale e sociale.

La tradizionale idea liberale di Stato è in crisi per il fatto che non è riuscita a contenere quell’espansione delle competenze statali, sovente motivata da argomentazioni etiche, che ha portato al restringimento delle libertà individuali. Nonostante le buone intenzioni iniziali, l’espansione delle competenze statali che si è realizzata nelle democrazie interventistiche si configura come il maggior pericolo per l’esistenza della libertà individuale.

Da questo punto di vista, se dovessimo ripensare al compromesso del primo costituzionalismo tra i diritti naturali (vita, libertà e proprietà) e artificialità dello Stato inteso come strumento della loro garanzia, ciò che ha caratterizzato la nascita e lo sviluppo della tradizione politica liberale, verrebbe da dire che, come tutti i compromessi, anche esso mostra i suoi limiti. Nel senso che se vogliamo mantenere il diritto di scegliere il modello di vita più adeguato al mantenimento della libertà individuale – sia pure con tutti gli oneri precedentemente visti – dovremo rinunciare allo Stato così come lo abbiamo finora inteso. Ma anche, molto mestamente, riconoscere che non sappiamo ancora con che cosa sostituirlo : non solo in pratica, ma forse neanche in teoria.

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