Lezione della Scuola di Liberalismo di Roma – 10 febbraio 2003

Questa lezione nasce da una rilettura degli atti del convegno su “Socialismo liberale e liberalismo sociale”, a cura di Beatrice Rangoni Machiavelli, pubblicati da Arnaldo Forni Editore nel 1981, convegno tenutosi a Milano il 10 e 11 dicembre 1979, nel periodo in cui Valerio Zanone era leader del PLI e Bettino Craxi del PSI, e si parlava molto di “lib lab” sull’onda del dibattito politico inglese. L’incontro, che vide partecipanti di varia estrazione politica, fu organizzato dal Centro Culturale Rodolfo Mondolfo e dalle riviste Alleanza e Critica sociale. Molto di quello che dirò questa sera è legato in qualche modo a ciò che si disse in quel convegno.

Cercherò di analizzare brevemente i valori fondamentali della tradizione liberale da Locke ad oggi, valori in parte di origine religiosa, che hanno il loro radicamento nella Riforma Protestante ed in particolare nel filone calvinista, seppure Calvino sia stato altrettanto intollerante della Chiesa Cattolica. Perché dobbiamo porre (anche se non esclusivamente, s’intende) le radici del liberalismo moderno nella Riforma Protestante, che ci riconduce, a sua volta, alla grande rivoluzione dell’etica cristiana? Il Cristianesimo, separando Cesare da Dio e le questioni della coscienza da quelle dello Stato, ha posto per primo il fondamento di un’ etica della libertà interiore assai diversa dall’etica antica della libertà. Un’etica per la quale ci sono questioni la cui soluzione appartiene solo alla coscienza morale dell’individuo illuminato dalla grazia e da una verità trascendente. Tra la coscienza dell’individuo e Dio si è poi posta la Chiesa con i suoi dogmi e la sua gerarchia, una Chiesa mediatrice attraverso i cui sacramenti l’uomo ottiene la grazia e consegue la salvezza.

La Chiesa ha sempre difeso la libertà della coscienza, ma si tratta di una coscienza rettamente orientata, vale a dire sintonizzata con i principi della Chiesa stessa. Se la coscienza ci dà indicazioni diverse da quelle dell’autorità ecclesiastica, essa non è più rettamente orientata, e quindi la coscienza, come ha detto di recente il cardinale Ratzinger, non deve obbedire a se stessa, perché cadrebbe in errore, ma a quella verità oggettiva e trascendente di cui la Chiesa è depositaria. Calvino e la riforma hanno abolito la mediazione ecclesiastica fra Dio e uomo. Ciascun uomo è sacerdote di se stesso, ciascun uomo legge e interpreta direttamente le sacre scritture e si salva attraverso un rapporto diretto e personale con Dio. Il Calvinismo, in questo modo, ha destrutturato la Chiesa, anche se poi l’ha ricostruita in nuove forme, e ha così aperto agli uomini nuovi spazi di attività mondana e perfino economica, secondo le note tesi storiografiche di Max Weber, con le quali si può essere magari non del tutto d’accordo, ma a cui si deve riconoscere un nucleo fondamentale di verità. Attraverso le sue attività mondane l’uomo dimostra a sé stesso e agli altri di essere nella grazia. L’individuo, che dovrebbe sentirsi schiacciato dalla predestinazione calvinista, nella realtà non è più passivo ma diventa attivo e responsabile. Nell’apparente servitù degli individui verso Dio, il calvinismo stimola l’attività e la responsabilità. Questo è un valore fondamentale dell’etica liberale: la responsabilità degli individui. Sono gli individui che, sorretti dalla grazia, trasformano il mondo e rendono così testimonianza della presenza divina in loro.

Un altro valore liberale fondamentale che comincia a svilupparsi assieme all’etica protestante, proprio nella seconda metà del cinquecento, e che poi si dispiegherà pienamente nel secolo successivo, è la scienza. Perché la nuova scienza deve essere considerata un valore liberale? La scienza galileiana, la scienza matematico-sperimentale allontana gli uomini dal principio di autorità: è pur vero che, per lo stesso Galileo, non c’è contrasto sostanziale fra le verità della Bibbia e quelle della nuova scienza della natura, ma nella natura, scritta in caratteri matematici, Dio ha mostrato più direttamente e autenticamente se stesso, e le sue verità noi le possiamo calcolare e misurare in modo intersoggettivo, senza bisogno di interpreti autorizzati, perché la misurazione e il calcolo dei fenomeni può essere ripetuto da ogni individuo. La verità diventa, allora, una conquista e una costruzione umana, di un uomo che rifiuta, nella conoscenza del mondo, il principio di autorità, e diviene, poi, sempre più consapevole che la verità è qualcosa che si modifica e si accresce nel tempo, filia temporis, perché, essendo legata all’esperienza, col mutare e l’ampliarsi dell’esperienza muta necessariamente anche la verità. La verità è, quindi, un processo storico.

Questa è una grande conquista di autonomia intellettuale e morale, che va ben oltre il campo delle scienze naturali, ma anche la scienza matematico-sperimentale ha contribuito non certamente alla formazione del liberalismo come ideologia politica (sarebbe ridicolo e antistorico affermarlo), ma alla formazione di un’etica della libertà, vale a dire di un’etica dell’individuo che non accetta più autorità trascendenti, che sottopone le sue affermazioni al controllo empirico intersoggettivo, che non giura più sui sacri testi di una tradizione teologica e filosofica illustre. Voi sapete di quel professore dell’Università di Padova, mi pare Cesare Cremonini, che, invitato da Galilei a guardare nel cannocchiale per constatare l’esistenza dei pianetini medicei, si rifiutò di farlo per non essere costretto a mettere in dubbio la teoria aristotelica dei cieli. In questo episodio si vede chiaramente la differenza tra la vecchia cultura fondata sul principio di autorità e la nuova che si viene formando e a cui tutti possono partecipare, perché ognuno può ripetere un certo esperimento. Mentre un ragionamento filosofico di tipo metafisico vale solo per coloro che condividono quella certa metafisica, un’ipotesi scientifica è un ragionamento che tutti possono confutare sulla base di nuove prove empiriche e di più accurati calcoli matematici. Anche questa spregiudicata apertura all’esperienza contribuisce, a mio parere,alla formazione di un’etica liberale.

Dicevamo che l’etica moderna non fa più appello ad autorità e principi trascendenti. Ma bisogna subito aggiungere che questa concezione della vita morale è ancora oggi, specialmente nei momenti di crisi, di stanchezza e di paura, soggetta a dure contestazioni non solo da parte della tradizione religiosa, ma anche da parte di filosofi che rinnegano i fondamenti puramente autonomi dei nostri valori morali. Voi sapete che per Kant, il filosofo che conclude la prima fase della modernità, la legge morale è una legge razionale universale del tutto autonoma. Ciò significa che la legge morale non è il comando di una qualche divinità e non è neppure una legge insita nella natura dell’uomo intesa oggettivamente, alla maniera di Aristotele e degli aristotelici cristiani. Secondo Kant la legge morale è una legge che sorge dalla nostra interiorità e, per essere veramente tale, non può essere eteronoma. Se noi fondiamo la legge morale sulla credenza in una qualche rivelazione divina, collegata magari con un sistema di premi e punizioni ultraterreni, questa legge non può essere universale. Ciascuno di noi può infatti credere in una diversa rivelazione divina, ma se i principi morali sono legati a queste differenti rivelazioni, essi varranno soltanto per coloro che credono in quelle particolari rivelazioni, e la legge morale sarà priva di universalità, vale a dire non sarà più tale. Inoltre, se noi colleghiamo la legge morale all’utilitarismo teologico, con il suo sistema di premi e punizioni ultraterreni, questo legame toglie alla morale ogni spontaneità, ogni creatività, perché essa diventa un calcolo utilitario, di un utilitarismo teologico certo, ma sempre utilitarismo. Ma soprattutto, se sull’esistenza di questa vita ultraterrena si insinua il dubbio, tu rischi di precipitare nel più terribile dei cinismi. Si giunge così alla visione infantile, presente talora anche in uomini di grande finezza intellettuale, in scrittori di grande vigore espressivo, di chi concepisce Dio come una sorta di commissario di pubblica sicurezza, di sorvegliante occhiuto e pedante della moralità umana. In realtà, non è affatto vero, come è stato più volte ripetuto, che se Dio non c’è tutto è permesso, perché la norma morale è necessariamente costitutiva di ogni rapporto umano, indipendentemente dall’esistenza di Dio.

Noi possiamo infinite volte (come di fatto accade) infrangere la legge morale, ma senza la legge morale, che ci obbliga incondizionatamente al di là di ogni pena ed ogni premio, non sarebbe possibile alcuna società. Nonostante il pessimismo che possiamo e, a mio parere, dobbiamo avere circa la capacità degli uomini di vivere secondo la legge morale, tuttavia senza di essa nessuna forma di società, a partire dalla società politica, potrebbe funzionare e sopravvivere. D’altra parte, la religione, qualsiasi religione che non aspiri al potere politico o non si presenti come instrumentum regni, non è incompatibile con l’etica della libertà e neppure con la società e le istituzioni liberali. In molti casi può anzi esserne un sostegno, perché molti uomini del passato e del presente hanno sopportato la persecuzione politica facendosi forza con la fede che nutrivano in un valore trascendente che non poteva essere in nessun modo sgretolato dalle minacce del potere. Quanti uomini hanno resistito all’oppressione e alla violenza affidandosi al Dio in cui credevano con fede profonda, una fede che è stata capace di sorreggerli e di preservarli dalla disperazione e dal cedimento morale? Tuttavia una società, per essere liberale, non ha bisogno della fede nella trascendenza, ma della fede, tutta umana e mondana, nella libertà e responsabilità di ogni individuo. Una fondazione utilitarista o contrattualista dello Stato liberale, che prescinda totalmente da questa fede morale, mi lascia perplesso.

Uno dei problemi più gravi della società liberale è la conciliazione non facile, non scontata, fra principio democratico e principio liberale: una società democratica, nella quale si governa necessariamente con il voto di maggioranza, non è per questo una società liberale. Se alcuni diritti fondamentali non sono garantiti al di là di ogni mutevole maggioranza, quella società, decidendo sempre a maggioranza, può stabilire, ad esempio, che un certo gruppo o determinati individui non debbano godere degli stessi diritti di cui godono altri individui o altre comunità etniche, culturali o religiose. Il massimo della democrazia, quando la si fonda sul semplice calcolo del benessere per il maggior numero, può anche coincidere con il minimo di liberalismo. Parlare di una fede razionale alla maniera di Kant, anche se non proprio negli stessi termini, non è, perciò, un semplice espediente retorico. È piuttosto un problema genuinamente etico-religioso, seppure non legato a una concezione religiosa di carattere trascendente. La società liberale si preserva e lo Stato liberale si mantiene saldo, finché conserviamo la “fede” (questa è la parola giusta ) nella dignità non mercificabile, non contrattabile, non calcolabile di ogni singolo individuo. E questa fede può certamente accompagnarsi al metodo scientifico, come abbiamo già visto, ma non ne discende necessariamente. È vero, come dice Popper, che il metodo scientifico, in cui la verità si costruisce attraverso il confronto delle diverse ipotesi e il controllo intersoggettivo delle stesse, tende a formare in noi una mentalità di tipo liberale, ma si tratta più di un’affinità psicologica che di un’identità’ concettuale. Questa affinità, tuttavia, non può essere scambiata per dimostrazione. In realtà, non c’è scienza che possa “dimostrare” che ogni persona ha un valore morale assoluto, quali che siano la sua razza, la sua religione, le sue preferenze politiche o il suo sesso.

Il liberalismo dunque, inteso in senso metapolitico, è una forza spirituale che si espande, che crea sempre nuove sfere di libertà, che allarga incessantemente la sua area di influenza sociale. In questo senso, la stessa concezione dei diritti naturali, che oggi si è trasformata nella teoria dei diritti umani universali, è’ certamente molto importante dal punto di vista giuridico, perché pone allo Stato, al potere politico, dei limiti precisi, invalicabili. Tuttavia, non dobbiamo mai dimenticare che questi diritti umani sono progressive e durissime conquiste storiche, frutto della creatività morale, e non immutabili realtà di natura. Quando noi parliamo di diritti naturali, intendiamo,inevitabilmente, la “natura” umana interpretata in un certo modo, secondo certi criteri morali e culturali che sono frutto delle nostre scelte, perché, in realtà, nella cosiddetta natura c’è tutto e il contrario di tutto, c’è la cooperazione ma c’è anche la distruzione, e parlare di diritti naturali come principi che da sempre e per sempre sono presenti nella “natura” razionale dell’uomo o in una “ragione” intesa naturalisticamente, è non solo alquanto problematico sul piano della ricostruzione storica delle differenti civiltà, ma può anche prestarsi a dei gravi equivoci morali, come la fissazione di un codice morale “naturale”, che finisce con l’ancorare la moralità ai costumi di una certa epoca e di una determinata cultura,con l’esclusione e la condanna di tutti coloro che non rientrano in parametri arbitrariamente stabiliti per definire le caratteristiche della “vera” natura umana. Accettiamo pure la teoria dei diritti umani universali, ma ricordiamoci che questi diritti umani sono in continua espansione, assumono sempre nuove configurazioni, perché si fondano su una concezione della libertà intesa come perenne creatività, che genera sempre nuove forme di vita e nuove regole morali, dal momento che nessuna precettistica e nessuna particolare tradizione etica e religiosa può’ esaurire la creatività della vita morale. L’autonomia morale è’ il principale fondamento dell’etica liberale, e tutti i principi su cui ci siamo soffermati, libertà religiosa, autonomia della ricerca scientifica, diritti non contrattabili degli individui, tutti questi principi sono all’origine dello Stato liberale e ne costituiscono la giustificazione non semplicemente giuridica. Le istituzioni giuridico-costituzionali del liberalismo, dello Stato inteso come un insieme di pesi e contrappesi, come sfere di azione che si controllano a vicenda, come garanzia dei diritti dell’individuo, come protezione di una sfera di autonomia della libertà della società civile e degli individui che la compongono, tutto questo discende da un processo storico durato alcuni secoli, che ha approfondito ulteriormente la tradizione dell’etica cristiana e ha condotto a quello che oggi chiamiamo lo stato liberale di diritto. “Liberale di diritto”, non solo “di diritto”, perché uno stato di diritto può anche essere illiberale, pur avendo leggi che sottraggono il cittadino all’arbitrio, ma che,tuttavia, disconoscono quelle sfere di autonomia individuale, istituzionalmente garantite, senza cui non si può parlare di libertà.

La concezione liberale della storia, Popper (assieme ad altri) ce lo ha spiegato molto bene, non è’ la filosofia della storia profetica, la filosofia della storia che rinserra gli individui in uno schema a priori, che anticipa il futuro, ma è un libero metodo interpretativo, aperto alle novità e alle contingenze del processo storico,consapevole che questo processo è sempre a rischio, che non c’è nessuna garanzia necessaria di progresso. Come diceva Croce, il liberale non deve mai smettere la propria vigilanza, non deve crogiolarsi in un “roseo progressismo”, perchè non c’è nessuna filosofia della storia che ci garantisce la permanenza indefinita dei valori liberali. I valori liberali di autonomia di cui abbiamo parlato devono continuamente essere riconquistati contro nuove minacce di nuovi nemici. La divisione dei poteri ed il rispetto dei diritti degli individui sono valori permanenti dello Stato liberale, ma le istituzioni si debbono poi aggiornare continuamente, e quelle della democrazia liberale di massa non possono essere identiche (ciascuno lo intende) alle istituzioni liberali delle origini, così come non sono identici i costumi, l’organizzazione economica, le classi sociali. Non è possibile oggi organizzare lo Stato, e tantomeno la vita economico-sociale, secondo i principi di Locke o Montesquieu o dei fisiocrati, sebbene alcune loro affermazioni restino anche per noi pienamente valide.

Questo mi permette di passare al discorso sul socialismo, perché, ad un primo esame, il socialismo, almeno un certo tipo di socialismo, sembra davvero incompatibile con i valori della tradizione liberale. Infatti, il socialismo (non solo quello utopistico, ma anche quello marxista) non ci vuole tanto rendere liberi quanto piuttosto felici, ci vuole guarire da tutti i nostri mali, ci vuole togliere ,in definitiva, quella perenne inquietudine, quell’inesauribile spirito di ricerca, che è il segno più riconoscibile della nostra umanità, e che ci permette di vivere nella dimensione che sola è nostra (e non degli dei), mescolando inevitabilmente la speranza con il timore, l’attesa del bene con l’angoscia per i mali possibili. Ora il senso della vita sta proprio in questa ambiguità, e una dottrina politica che ci promette la soluzione di ogni problema con l’instaurazione, come dice Marx, del “regno della libertà”, una libertà assoluta e senza conflitti, poiché la libertà di ciascuno coinciderà pienamente con la libertà di tutti ( ma questo pseudoregno della libertà si è poi tradotto, storicamente, nella più terribile delle tirannie ) sembra prefigurare una società in cui c’è veramente la pace della morte. Quando si parla di socialismo riformista si intende, perciò, non il socialismo degli utopisti o quello di Marx, che si dovrebbe concludere nella società senza classi in cui tutti i bisogni sono soddisfatti, tutte le risposte sono state date e non c’è più nulla da ricercare, non ci sono più inquietudine nè ambiguità né nuove e migliori forme di giustizia da realizzare. Il socialismo riformista è il socialismo che prosegue sulla strada indicata dall’etica ed anche dall’economia liberale.

Finora abbiamo parlato dell’etica liberale e non dell’economia, ma non c’è dubbio, ed Einaudi ha scritto in proposito delle pagine molto belle, che senza la libertà economica e senza il mercato anche le altre libertà, religiose, politiche e civili non possono esistere, perché il mercato dà vita a una pluralità di centri di potere che si combattono e si limitano vicendevolmente, e questa molteplicità della base economica della società consente anche la varietà e la conflittualità delle idee e la formazione di istituzioni politiche pluralistiche. Mi pare una verità indubitabile che non c’è nessun genere di libertà senza mercato. Ma come è stato più volte osservato, il mercato è asimmetrico, ed è imperfetto alla luce dei fondamenti stessi della morale liberale: se siamo convinti che la concezione morale liberale affonda le sue radici nell’etica cristiana, nell’umanesimo e nella dottrina, scientificamente discutibile ma praticamente molto efficace, dei diritti naturali o diritti umani che dir si voglia, dobbiamo anche ammettere che ci sono situazioni nelle quali il mercato produce condizioni di vita, per alcuni o per molti, che sono in contrasto con i principi morali che stanno alla base del liberalismo stesso. Bisogna, quindi, sottoporre il mercato ai principi etico- politici della tradizione liberale, e la tradizione liberale insiste sulla priorità della persona, sulla sua autonomia, e su alcuni diritti che spettano ad ogni individuo indipendentemente dalla sua condizione economica e socioculturale. Questo non significa abolire il mercato, e non significa neppure abolire quegli elementi di selezione delle capacità che il mercato produce inevitabilmente, con conseguenze anche fortemente positive. La dura legge del mercato stimola la crescita produttiva, tende a premiare i migliori, anche se poi si possono formare situazioni di monopolio o di oligopolio che premiano non i migliori ma i peggiori: ed ecco allora che un mercato regolato da principi non punitivi, non moralistici, ma etico-politici di matrice liberale, può e deve essere accettato anche dal socialismo riformista, gradualista o ,per usare il titolo di un libro molto bello che Carlo Rosselli scrisse al confino di Lipari nel 1928-29 e pubblicò poi in francese a Parigi nel 1930, dal “socialismo liberale”. Socialismo liberale significa, in definitiva,l’incontro di nuovi ceti sociali che tendono verso l’elevazione non solo economica, ma anche spirituale e culturale, con la grande tradizione del liberalismo inteso non in senso puramente individualistico, ma secondo quello spirito associativo e cooperativo che ha consentito a i ceti sociali che erano in condizione di minorità di conquistare diritti che altrimenti non sarebbero mai stati concessi. Dobbiamo anche qui essere molto realistici, come ci insegna Einaudi: senza le lotte sindacali degli operai nella seconda metà dell’ottocento, le classi dirigenti liberali dell’epoca non avrebbero mai concesso taluni diritti fondamentali alla classe operaia. Che poi queste organizzazioni politiche e sindacali della classe operaia si siano burocratizzate, sclerotizzate ,ed in certi momenti siano diventate un ostacolo all’ulteriore sviluppo della libertà e delle sue istituzioni e abbiano prodotto, in tempi recenti, gli sprechi dovuti agli eccessi di burocratizzazione dello stato assistenziale, è indubitabile , ma sarebbe ingiusto addebitare il fenomeno esclusivamente ai partiti socialdemocratici e ai sindacati. Ci sono anche le responsabilità, talora gravi, dei partiti conservatori e moderati, che hanno cavalcato spregiudicatamente l’ondata populista e perfino statalista. Lo Stato sociale, nelle sue forme più sane, resta comunque una grande conquista liberale, di giustizia liberale, e le ambiguità e gli sprechi dell’assistenzialismo non autorizzano il ritorno a un capitalismo selvaggio,in cui i meccanismi del mercato non sono in alcun modo regolati. Credo che anche dal punto di vista del liberalismo classico, specialmente oggi nella società ad economia globale, il problema di una regolazione etico-politica dei grandi processi economico- finanziari a livello mondiale sia più che mai attuale e sia, come sostengono coloro che hanno in materia competenze molto maggiori delle mie, un problema di difficilissima soluzione. Tuttavia, l’apologia che molti, fino a qualche anno fa, facevano del liberismo come dottrina economica e politica che risolve automaticamente tutti i problemi , che ci consente la crescita economica e al tempo stesso una migliore allocazione delle risorse favorendo il progresso economico e civile dei ceti sociali inferiori che possono così disporre di una maggiore ricchezza globale, tutto questo è stato smentito dai fatti. Il sistema economico mondiale globalizzato lasciato a sé stesso genera certamente molta ricchezza, ma una ricchezza profondamente squilibrata tra le nazioni, i gruppi sociali e gli individui. Da qui nasce il problema delle scelte politiche rispetto alla spontaneità dei processi economici: un problema che esiste nei fatti e non nelle astrazioni degli ideologi del socialismo. Possiamo naturalmente escogitare soluzioni diverse, da quelle neoliberiste a quelle della “terza via” di Tony Blair, ma la questione del rapporto fra decisione politica e processi economici non può essere cancellata da nessuna apologia e mitologia del mercato. Il conflitto politico di una società liberale matura si gioca sul rapporto che dobbiamo stabilire tra politica ed economia, tra il mercato che non possiamo abolire, pena la decadenza di tutte le libertà, ed alcuni principi di ordine morale e politico senza i quali la società liberale si autodistrugge. Il problema di quale possa essere oggi il ruolo della politica, di come la politica debba interagire con l’economia, di quali siano, in concreto, i diritti da tutelare ed i bisogni da soddisfare, di quale ordine di priorità si debba tener conto tra le richieste dei vari gruppi sociali, il problema, insomma, della scelta politica che non può limitarsi ad accettare l’ordine economico cosi come si presenta nella sua spontaneità selvaggia, è una questione antica della società liberale, che si presenta,oggi, con il volto nuovo di un sistema economico globalizzato e di una politica ancora parcellizzata. Il socialismo riformista, il socialismo liberale, la teoria della terza via, il laburismo alla Blair, le socialdemocrazie europee in fase di vario rinnovamento, fanno anch’essi parte della tradizione liberale, sono variazioni dell’etica liberale e anche dell’economia liberale. Lo stesso Keynes è anch’egli, nessuno potrebbe ragionevolmente negarlo, un teorico dell’economia liberale, sebbene tra lui ed Hayek ci siano differenze molto profonde. Se anche in Italia approdassimo a un sistema politico coerentemente liberale, nel quale si confrontano ( all’interno di istituzioni sulle quali tutti convergono e che tutti intendono preservare senza secondi fini) diversi modi di concepire il rapporto politica/ economia, se arrivassimo ad una condizione del genere, anche noi, che abbiamo avuto una storia diversa dal resto dell’Europa occidentale, una storia molto più complicata e tormentata, potremmo dirci un paese liberale maturo, dove non ci si attarda più in sterili e pretestuose polemiche su ideologie defunte, ma ci si confronta su problemi reali al riparo di un’etica della libertà responsabilmente condivisa dalla generalità dei cittadini.

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