Lezione della Scuola di Liberalismo di Milano – 22 aprile 2002

Salvatore Valitutti (1907-1992)

“La riforma intellettuale e morale degli italiani” (Francesco De Sanctis, Ministro della Pubblica Istruzione del Regno d’Italia nel 1861) fu il concetto al quale si ispirò Valitutti. Da sempre il Partito Liberale Italiano e, più in generale, i liberali, riconoscono il posto d’onore alla scuola ed alla cultura, perché sono il fondamento di ogni libertà, prima fra tutte la libertà di pensiero. Salvatore Valitutti ha illustrato questo nostro carattere, con la parola, con gli scritti e con l’azione, accanto a Luigi Einaudi, Benedetto Croce, Gaetano Martino, Alberto Giomo, Guido Sasso e Vittorio Enzo Alfieri. Se un liberale conosciamo come “uomo di scuola”, questi è Salvatore Valitutti.
Del pianeta scuola, spesso ignoto nella sua interezza anche a chi ci lavora, egli sapeva praticamente tutto, perché vi aveva ricoperto incarichi e funzioni: da Provveditore agli studi di Mantova (nominato da Giuseppe Bottai) a Rettore dell’Università per stranieri di Perugia, da Sottosegretario a Ministro della Pubblica Istruzione. Di pari passo procedeva l’impegno politico nel PLI per la scuola: sempre responsabile dell’Ufficio Scuola, ne tracciò il carattere, tanto da renderlo un luogo di riferimento anche per gli altri partiti.

La riforma della secondaria lo trovò strenuo oppositore, tanto da definirla, così come concepita, Una riforma impossibile, che è anche il titolo del libro in cui ne tratta, edito da L’Opinione nel gennaio del 1983. È un libro bianco, annunciato nel luglio dell’82, in occasione del voto contrario del PLI al progetto di riforma della secondaria, che si andò arricchendo di vari contributi, che richiamavano – già allora – anche la necessità di riformare il Ministero della Pubblica Istruzione.

A pag. 46 del volume (che è anche la storia travagliata della Riforma, dal Convegno di Frascati del maggio 1970 sino al 1983) viene illustrato un concetto generale, che spiega senza saperlo né volerlo, anche i limiti della riforma dei cicli voluta vent’anni dopo dal Ministro Berlinguer: “Quando si suddivide una scuola unitaria (vedasi la pdl liberale a firma Malagodi del 31.5.1984) in aree e poi si suddividono le aree in indirizzi come fa il presente progetto (n. 120/A) è inevitabile cadere in un certo grado di arbitrarietà. Perché 4 aree e non 3 o 5? Perché 16 indirizzi e non 15?… Con ciò non si vuole rifiutare l’atteggiamento empirico, bensì ammonire il ricercatore dell’assoluto a tener ben presente l’inevitabile grado di arbitrarietà che c’è nelle decisioni che toccano la materia empirica. Si è ceduto allo spirito di geometria che è sempre uno spirito assoluto, quando si è voluto mettere l’area artistica allo stesso piano delle altre tre aree, linguistico-letteraria, scienze sociali e naturalistica, matematica e tecnologica. L’istruzione artistica è un’istruzione atipica che non si può costringere nel letto di Procuste dell’ordinamento scolastico generale. Persino i russi…sanno rispettare e rispettano l’atipicità dell’istruzione artistica… Le riforme scolastiche si fanno assai più con l’esprit de finesse che con l’esprit de geometrie”.

Riaffiora, anche, qui la sensibilità del liberalismo verso una visione che lasci al singolo la responsabilità delle proprie scelte di vita; libertà della quale la scuola dovrebbe essere garante e maestra, attraverso l’affinamento degli strumenti propri del giudizio critico. Già nel 1970 Valitutti – relatore di minoranza nella Commissione Biasini – all’indomani del Convegno di Frascati, opponendosi alla cosiddetta scuola comprensiva, che Berlinguer è riuscito ad attuare, aveva affermato: “La commissione ha rischiato di disegnare una specie di città del sole della nostra scuola nel settore secondario superiore astraendo dalle condizioni effettive in cui i modelli o le ipotesi elaborate e predisposte debbono attuarsi ed operare… questa operazione razionalizzante non può e non deve aver luogo prescindendo del tutto dalla considerazione realista delle condizioni di fatto in cui bisogna realizzare il disegno prescelto.”

Più avanti Valitutti muove un’altra critica “alla posizione puramente teorizzante che emerge dal suddetto documento”: essa riguarda “l’omissione di ogni accenno sia pur vago e indiretto al costo finanziario della riforma”. Valitutti ricorda l’articolo di Giovanni Gozzer pubblicato dal settimanale Sette Giorni (n° 225 del 1971) intitolato Il genio del compromesso in cui l’Autore, fra gli ostacoli che si oppongono “all’ipotesi della scuola comprensiva”, menziona il valore legale dei titoli di studio, al quale da sempre i liberali (ed Einaudi in particolare) sono contrari.

Oggi, nel 2002, con la cosiddetta scuola della autonomia, più apparente che sostanziale, ci pare giunto per i liberali il momento di riprendere questa battaglia. Possiamo considerare la concretezza di uno dei fondamenti del pensiero liberale: quello della qualità della scuola, che discende dalla qualità dell’insegnamento impartito in ciascun istituto e non dal puro e semplice valore legale del diploma.

Il diritto allo studio

Gaetano Salvemini nel famoso articolo Il diritto di essere ignoranti afferma tra l’altro: “…Noi non riusciremo mai a sapere tutto, nemmeno nel campo della coltura (sic! allora cultura si scriveva anche con la “o” ndr) professionale… Le lacune nella sua coltura (sua dell’uomo ndr), tanto generale quanto professionale, rimarranno sempre enormi. Quello che un uomo riesce a imparare e quello che non saprà mai, stanno tra di loro come il finito sta all’infinito, vale a dire che la nostra conoscenza finita rispetto alla nostra ignoranza infinita sarà sempre uguale a zero. Noi stentiamo ad ammettere, per noi come per gli altri, la necessità di essere ignoranti intorno a un numero infinito di cose. Tormentiamo noi stessi e il prossimo perché non abbiamo né il coraggio né l’umiltà di riconoscere che la nostra capacità di imparare è e sarà sempre limitata, e che, stando così le cose, tanto gli altri che noi abbiamo il diritto di essere e di rimanere ignoranti su un numero infinito di cose.”

Un altro grande tema sociale impegnò le energie del Senatore: Il diritto allo studio. Il suo pensiero è sintetizzato nel volume così intitolato, edito nel 1977 da Armando nella collana Controcampo. A noi interessa la qualità e non la quantità del diritto allo studio, questione spinosa e insoluta nonostante le provvidenze di diversa forma, dal cosiddetto presalario all’assegno d’esame, dalle 150 al recente buono-scuola (varato con la L. R. n. 1 del 5.1.2000 dalla Regione Lombardia). Ben presto, con l’estensione dell’obbligo scolastico sino ai 14 anni (e oggi a 15), e cioè fino alla licenza media e al primo anno delle superiori, il diritto allo studio divenne nei fatti il diritto al “pezzo di carta”, alla promozione sicura, e con ciò tale diritto perdeva di sostanza e valore a danno proprio delle classi più deboli.

Contro tale costume si pronuncia Valitutti, ricostruendo la storia di questo pur inalienabile diritto. Nel capitolo intitolato Lo studio come diritto e come dovere, egli scrive: “L’obbligo dello Stato moderno di apprestare istituti e mezzi per l’istruzione dei fanciulli e dei giovani sorse sul fondamento del riconoscimento del diritto dei cittadini alla istruzione come mezzo necessario per l’effettivo esercizio dei diritti di libertà e di uguaglianza. Tuttavia proprio a cagione della latitudine del concetto di libertà come attributo dell’uomo non fu sancito subito anche l’obbligo dei cittadini di istruirsi. L’obbligo dello Stato di istituire scuole ebbe come suo presupposto il diritto dei cittadini di pretendere che le scuole fossero istituite per frequentarle, ma non l’obbligo degli stessi cittadini di frequentarle. Fu una posizione giacobina quella dalla quale si poterono costringere e, in effetti, si costrinsero i cittadini a diventare liberi obbligandoli a frequentare almeno la scuola primaria ritenuta liberatrice. Con l’istituzione dell’obbligo scolastico come obbligo dei cittadini avviene il passaggio della libertà negativa alla libertà positiva, cioè dalla libertà come mero diritto alla libertà come processo di autorealizzazione degli individui.”

Da ciò discende che l’art. 34 della Costituzione “non sancisce un vero e proprio diritto allo studio, come ad esempio il diritto al lavoro… la Costituzione si limita a garantire il diritto dei capaci e meritevoli, privi di mezzi, a raggiungere i gradi più alti degli studi… per il lavoro il diritto precede il dovere, in quanto tutti hanno bisogno di lavorare, mentre per lo studio il dovere precede il diritto, perché al di là della scuola dell’obbligo, alcuni scelgono ed altri non scelgono di studiare, almeno scolasticamente.” Egli così conclude: ”Il diritto allo studio è diritto ai mezzi per poter studiare, diritto obiettivamente garantibile e garantito solo a chi dimostri di aver volontà e capacità di studiare e sia privo dei mezzi stessi”.

Coerentemente, dunque, per la concezione liberale, soltanto l’impegno intellettivo costante può elevare l’uomo; può formare con rigorosa disciplina i giovani titolari di quel diritto prima di ogni altro. Ed è soprattutto una libertà positiva, una scelta libera di chi vuole almeno tentare di essere artefice di se stesso per mezzo degli studi. Per questo – nella realtà quotidiana della scuola – non può legittimamente realizzarsi un diritto automatico al diploma, nell’interesse stesso dello studente. Né va dimenticato il conflitto anche artificiosamente creato, tra l’insegnamento pubblico e quello privato, anzi libero. Sullo spinoso contrasto Valitutti (sempre nel volume sopra citato) così si esprime, dopo aver riassunto i termini della questione: “… I buoni-alunno (ndr: oggi si direbbe “buono-scuola”) si potrebbero istituire non solo senza danno ma con vantaggio per la serietà degli studi solo in un sistema in cui i titoli di studio non avessero valore legale. In un sistema come quello che vige in Italia i buoni-alunno scatenerebbero la gara per il diploma più facile”.

La Regione Lombardia (con la L.R. 5.1.2000 n. 1) ha forzato i tempi di questo progetto e noi – non contrari né entusiasti ma potenzialmente favorevoli – attendiamo gli effetti della norma sul livello degli studi e sul funzionamento generale della scuola libera. In definitiva, lo Stato non è concepito dai liberali quale Stato etico, che pretenda di inculcare una religione, un credo politico o una specifica istruzione, “ma ha il dovere con le sue istituzioni scolastiche di educare tutti i cittadini ad una libera socialità, di formare il senso civico, l’indispensabile patriottismo civile. E tutti sappiamo quanto l’Italia ne abbia bisogno”. (Paolo Bonetti in Critica liberale, 1996). Aggiungo che oggi si deve necessariamente avviare da parte della scuola privata e della scuola statale una fase di reciproca conoscenza e rispetto, perché entrambe, integrandosi, possano costituire un armonico sistema d’istruzione nazionale.

Valitutti ministro

Altro cardine del liberalismo è il corretto funzionamento delle istituzioni. “Una delle più dure esperienze che ho dovuto soffrire subito come Ministro della pubblica istruzione è stata quella dello scarso grado di agibilità dello strumento amministrativo a mia disposizione. In questi anni l’organismo della scuola si è molto dilatato e complicato, e l’amministrazione, i cui atti ne condizionano il funzionamento, è diventata sempre più impari ai suoi compiti. Si sono aumentati gli organici del personale sia al centro che in periferia, ma ciò non è stato sufficiente. Neppure il largo trasferimento di funzioni dal Ministero ai Provveditorati agli studi ha reso più agile lo strumento amministrativo. Si è alleggerita la mole delle funzioni del Ministero e si è appesantita quella delle funzioni dei provveditorati agli studi, con l’effetto finale e complessivo di rallentare e complicare ulteriormente l’azione amministrativa.” (In “Otto mesi alla Minerva, pag.17).

Divenuto Ministro nell’agosto 1979, Valitutti si preoccupò in particolar modo di curare il funzionamento della macchina amministrativa del Ministero, peraltro a lui già nota. Dall’esame della situazione, egli maturò la convinzione che fosse necessario indire la prima Conferenza Nazionale della Scuola su Finalità, problemi e organi della partecipazione scolastica in un ordinamento democratico (Roma, febbraio 1980). Per la prima volta si organizzò una assemblea nazionale sul tema della partecipazione alla vita della scuola, alla quale presero parte docenti, dirigenti amministrativi, presidi, studenti, forze politiche e sindacali.

Tra l’altro, nel suo lungo intervento, il Ministro disse: “L’Occidente è sorto e si è sviluppato in quest’ultimo trentennio un ampio e vario moto di pensiero sul problema della partecipazione nella scuola, sorto in dipendenza della nuova condizione giovanile e delle nuove responsabilità spettanti alla scuola nelle società industrializzate avanzate. In Italia questo moto di pensiero non ha avuto significativi svolgimenti. Forse gli organi collegiali istituiti nel 1974 ed entrati in azione nel 1975 costituirono un esperimento tanto più audace quanto più inserito in un sistema predisposto e propenso per le sue caratteristiche istituzionali, a rigettarlo o ad emarginarlo. Debbo confessare che personalmente, tra il 1973 ed il 1974, non fui tra i relatori di tali organi, ma non mancai di suggerire, anche attraverso scritti, buona volontà nell’applicarli, una buona volontà nutrita di coraggio, di saggezza e di pazienza. Purtroppo i più recenti avvenimenti hanno dimostrato che non abbiamo voluto avere pazienza. E lo dico per significare che, almeno alcuni di noi, hanno preteso di gettare tutto al macero una esperienza quinquennale, senza interpretarla, senza neppure utilizzarla con i materiali di studio. Nel rifiuto degli organi collegiali c’è stata una certa misura di volubilità irrazionale.”

Più avanti: “È da questo bisogno di trasformazione che nasce il problema della partecipazione che va risolto fronteggiando ed eliminando due gravissimi pericoli, quello di concepire e trattare i discenti come controparte dei docenti e di concepire e trattare i docenti come controparte dei discenti; secondo, quello di svuotare la scuola dei suoi contenuti culturali, con la pretesa di farla servire alla educazione sociale dei giovani. Per vincere questi due pericoli, bisogna tenere presente che la conflittualità che è propria della fabbrica non è trasferibile nella scuola, dato che in questa non ci possono essere datori di lavoro; e dall’altra, il volere ridurre la scuola ad uno strumento di educazione sociale significa vanificarla come scuola e trasformarla in sede di duellanti indottrinamenti politico-ideologici. La spinta a porsi il problema della partecipazione nella scuola proviene anche da fattori oggettivi che sono da rintracciare nel tipo stesso della richiesta che la società industriale avanzata di oggi fa alla scuola, rivolge alla scuola, sollecitandola sempre più a corrispondere alle sue esigenze tecnico-professionali. La società industriale è una società densamente tecnico-professionale. La scuola è chiamata a trasferire sempre più la sua opera nella attualità. Le si chiede di aprirsi di più alla vita e perciò di parteciparvi. Non si può dire di no neppure a questo invito, ma difendendo in modo coerente il valore della irrinunciabile continuità storica del pensiero umano, da cui si alimenta la scuola”.

Prosegue e conclude: “La riforma che dovremmo perciò affrontare sarebbe in primo luogo una riforma costituzionale. Infatti il comma secondo dell’articolo 33 recita: La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Proprio non riesco a vedere come una autorità locale, quale che essa sia, possa istituire scuole statali. Se vogliamo perciò conservare la nostra Costituzione ed insieme non violarla, dobbiamo necessariamente ricercare i modi più convenienti di riformare la nostra amministrazione scolastica sul presupposto che la scuola resti statale. Possiamo anche decidere di cambiare la Costituzione, se vogliamo costruire un sistema diverso; ma, appunto, dobbiamo sapere che per costruire un sistema diverso, dobbiamo affrontare la riforma dell’articolo 33. A questo punto desidero concludere leggendovi il brano di una lettera di un anonimo lettore pubblicata qualche mese fa da una rivista scolastica: C’è una richiesta precisa di dare fondamento culturale alle scelte di scuola nuova fatte tempo addietro; c’è il richiamo continuo ad uscire dalla rassicurante ripetizione di slogan, per verificare che cosa c’è dietro. C’è la voglia di fare della scuola un luogo dove si possa finalmente studiare; siamo in una fase nella quale stanno affiorando valori nuovi, diversi da quelli di un tempo, e diversi, anche, da quelli sognati negli anni del Sessantotto. E’ tempo di guardare intorno a noi, con la voglia di vedere quello che effettivamente c’è e non alla ricerca di quello che ci piacerebbe trovare, chiudendo gli occhi proprio perché non lo troviamo. Mi pare che sia ora di crescere. Non serve a nessuno rimanere eternamente adolescenti. Anch’io, Signore e Signori, penso che non serva a nessuno rimanere eternamente adolescenti. Tutti sentiamo oramai il bisogno di crescere. Ora che abbiamo riconquistato la chiarezza di questo bisogno, commetteremmo un grave, forse irrimediabile errore, non andando avanti nella nostra volontà di crescere, ma cedendo alla nostalgia alla nostra adolescenza, pur se questa deve rimanere cara nel nostro ricordo” .

Valitutti, il partito e la scuola

Due anni dopo, non più ministro, ma sempre ispiratore della politica scolastica del PLI e del Paese, Valitutti presiedette a Roma (25 e 26 maggio 1982) la Conferenza Nazionale della Scuola del PLI. In questa egli tenne la relazione su La Riforma della amministrazione scolastica. Ne riportiamo gli stralci più salienti.

Pagg. 1 e 2 “Resistendo al timore di essere incolpato di voler cercare nella Costituzione anche quello che non c’è, io oso ritenere che nel suo art. 33, che fissa i principi regolativi dei rapporti tra Stato e scuola, si dovrebbe amministrare in forza del tipo degli anzidetti rapporti. Credo che si possa dire che l’art. 33 si collocò nell’ottica dell’amministrazione detta napoleonica, cioè dell’amministrazione della scuola attuata da organi statali, centrali e periferici. Infatti, il predetto articolo, premesso che l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento, dice che:

  • la Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali di ogni ordine e grado;
  • enti e privati hanno il diritto di istituire scuole senza oneri per lo Stato e che la legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni delle scuole statali;
  • è prescritto un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l’abilitazione all’esercizio professionale.

Ci fu chi motivò il voto contrario all’approvazione dello art. 33 con riferimento alla norma relativa all’esame di Stato, ritenuta confermativa del precedente ordinamento amministrativo. Lo stesso art. 117, includendo espressamente l’istruzione artigiana e professionale fra le materie nelle quali le Regioni emanano norme legislative nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato, conferma questa interpretazione. L’art. 118 specifica che spettano alle stesse Regioni le funzioni amministrative nelle suddette materie. E’ vero che per il medesimo articolo lo Stato può delegare alle Regioni l’esercizio di altre funzioni amministrative delegabili quelle assegnate allo Stato espressamente dalla stessa Costituzione.

Altre norme Costituzionali comprese negli Statuti di alcune Regioni ad ordinamento speciale espressamente prevedono la competenza legislativa delle Regioni stesse in alcuni rami della Pubblica Istruzione. Ad esempio lo statuto della Regione Siciliana del 1946 prevede la legislazione esclusiva di quella regione in materia d’istruzione elementare. Vero è che quella norma non si è finora attuata, e non credo per volontà dello Stato, ma essa ancora esiste nel nostro ordinamento. Anche queste norme costituzionali confermano che le scuole istituite dallo Stato, ai sensi dell’art. 33, sono amministrabili dagli organi dello stesso Ente che le disciplina legislativamente e le istituisce.”

Pagg. 2 e 3 “Entro questo quadro costituzionale inequivocabilmente segnato, e sostanzialmente accettato da tutte le forze politiche che avevano voluto la Costituzione partecipando alla sua elaborazione, persino da quelle che più tenacemente nella loro battaglia storica contro il cosiddetto statismo scolastico dello Stato liberale prefascista si erano battute per l’autonomismo scolastico anche sul piano dei congegni amministrativi, non tardò a porsi il problema della riforma dell’amministrazione della scuola ma come problema di agilità e funzionalità dei suoi strumenti operativi via via che questi strumenti cominciarono a rilevare la loro impotenza e imprecisione nella realtà di una scuola cresciuta fisicamente al di là dei limiti della loro oggettiva idoneità a padroneggiarla.

Si produsse ad un certo punto una sproporzione, e questa sproporzione andò via via allargandosi, tra le obiettive possibilità dello strumento amministrativo a dirigere, per la parte spettantegli, la scuola, e le esigenze della scuola stessa troppo cresciuta in relazione alle suddette possibilità. Si notò e riconobbe che lo strumento amministrativo era stato concepito e forgiato per l’amministrazione di una scuola con ristrette dimensioni e che lo strumento stesso era divenuto largamente inagibile in rapporto ad una scuola che aveva raggiunto dimensioni di massa.”

Pag. 4 “Per vincere la sproporzione si aumentarono gli organici sia al centro che alla periferia e soprattutto si premé sul pedale del decentramento amministrativo trasferendo non poche funzioni amministrative del Ministero della P. I. agli organi periferici e soprattutto ai Provveditorati agli Studi, ma seguendo con il metodo classico del decentramento che parte dalle unità periferiche più elementari e le rivitalizza e sale poi verso il centro bensì il metodo opposto, quello cioè che parte dal centro e scende via via verso la periferia. Certamente con questo metodo si sono trasferite non poche funzioni dagli organi centrali a quelli periferici, ma il risultato maggiore e più vistoso è stato quello di trasferire l’accentramento da Roma nelle sedi provinciali. Questo accentramento è diventato ossessivo in quelle sedi nelle quali il fenomeno dell’urbanizzazione ha più addensato le popolazioni.

Noi oggi abbiamo i Provveditorati agli Studi di Milano, di Roma, di Torino, di Napoli che non hanno più fattezze umane e che hanno raggiunto un alto grado di ingovernabilità in una situazione nella quale le circoscrizioni provinciali dei Provveditorati agli Studi sono rimaste invariate e in cui non si è tenuto presente che decentrare funzioni amministrative già accentrate poteva avere un effetto realmente decentrante in una piccola provincia ma che decentrare le stesse funzioni in province già popolose e divenute per l’urbanesimo sempre più popolose non poteva trasferire che l’accentramento, con la conseguenza non di accelerare ma di ritardare ulteriormente i procedimenti amministrativi.

Abbiamo fatto l’esperienza che non si è sbagliato nel ricercare i rimedi della direzione nella quale si sono ricercati ma che si è sbagliata la scelta dei singoli rimedi. Dobbiamo riconoscere che si è andata via via creando una situazione di crisi sempre più grave e che la crisi dello strumento amministrativo si è ripercossa e si ripercuote nella vita interiore della scuola ed è perciò diventata un momento ed un aspetto della stessa crisi della nostra amministrazione scolastica.”

Pagg. 5-7 “Se ho privilegiato questa causa citando come prima nella mia esposizione, è solo perché di essa solitamente si parla ed è certamente la più appariscente. Ma ci sono almeno altre due cause che bisogna menzionare, di cui una minore e l’altra maggiore. La prima va ricercata in un certo tipo di legislazione scolastica prevalsa in questi ultimi lustri nel nostro Paese con un ritmo ed un andamento obiettivamente schizofrenici – absit iniura verbis – per la tutela di diritti e interessi di gruppi di insegnanti e di addetti alla scuola. Si è sviluppata una specie di spirale per cui le lacune e le ingiustizie di un dato provvedimento hanno determinato un provvedimento successivo inteso a colmare e a ripararle e il nuovo provvedimento ha determinato a sua volta per le stesse ragioni un nuovo provvedimento. È questo il perverso congegno che si pone in essere allorché si deroga nella legislazione al principio della parità dei diritti di tutti dinanzi alla legge comune e generale. Le leggi derogatorie pongono sempre la premessa di nuove leggi di deroga in una corsa senza fine. Una siffatta legislazione che impone tempi brevi per la sua applicazione finisce con il logorare e con il rendere impotente qualsiasi strumento amministrativo.

Solitamente il nostro legislatore, specie quello scolastico, non accorda sufficiente attenzione alle possibilità e capacità dell’organo chiamato ad applicare le leggi che approva e alla misura e al modo in cui l’applicazione delle stesse leggi incide sulle qualità e sul grado di resistenza dell’organo anzidetto a perdurare nel suo essere. Si deve aggiungere che di questo tipo di legislazione protezionista più che garantista, ispirata largamente dalle forze sindacali, si richiede l’applicazione con interventi ispirati da una pregiudiziale diffidenza verso l’Amministrazione, diffidenza che finisce con il ridurne il rendimento. Ogni essere o organo demonizzato dalla sua controparte diventa non più ma meno alacre.

Questo ci ha sempre insegnato e continua a insegnarci la storia delle lotte per la libertà. Io non imputo ai sindacati di porsi come contro-parte dell’Amministrazione nella difesa dei diritti e legittimi interessi delle categorie di cui sono espressione, ma solo la costante abitudine a demonizzarla presupponendo in ogni suo comportamento una precisa volontà come il retaggio fatale di una specie di peccato originale senza accorgersi che questo è proprio il modo di svegliare questa volontà. Analizzando la legislazione anzidetta e il comportamento delle forze che premono per la sua approvazione e ne controllano l’applicazione, si ha talvolta la impressione che non gli insegnanti ed addetti esistano per la scuola e perciò i suoi alunni, ma che alunni e scuola esistano e debbano esistere per insegnanti ed addetti, pur se è vero questo modo strumentale di considerare scuola ed alunni ha finito e finisce con il danneggiare di più proprio gli insegnanti nel periodo più lungo in cui deve spaziare la loro opera. Se ciò è vero, non possiamo far ricadere soltanto sull’Amministrazione la responsabilità di quei mancamenti che più si ripercuotono nella vita interiore della scuola e la rendono più travagliata.

Anche un’Amministrazione che disponesse di migliori strumenti operativi sarebbe largamente impotente nell’attuale situazione in cui il funzionamento della scuola non è separabile dal funzionamento delle altre istituzioni. Mi spetta di aggiungere che la scuola italiana è probabilmente la sola scuola in Europa che da anni vive e soffre il dramma dell’inizio dell’anno scolastico che non riesce a decollare se non dopo alcuni mesi durante i quali o gli alunni restano senza alcuni insegnanti ovvero assistono al rapido passaggio di molti insegnanti. La colpa di questo dramma si è fatta e si fa normalmente ricadere sulle manchevolezze e negligenze dell’Amministrazione, e non si sospetta neppure che la vera causa e da ricercare in leggi approvate dal Parlamento che hanno stabilito termini e fissato procedure il rispetto delle quali rende fatale e ripetitivo il lamentato ritardo che ha tanto inciso ed incide sull’autorevolezza morale della scuola.

La terza causa è certamente quella che è emerso ed emerge di più nei dibattiti che più recentemente si sono svolti sul problema della riforma della nostra amministrazione scolastica e che prevedibilmente avrà sempre più peso nel prossimo avvenire in cui si vuole effettuare lo sforzo per uscire dalle presenti difficoltà. Essa è definibile come la incertezza sopravvenuta nella stessa concezione del tipo di rapporto intercorrente tra scuola e società nel nostro Paese. Questa incertezza ha investito e investe il rapporto esistente un rapporto, avente le sue radici, come già detto, nella stessa Costituzione, e mediato, per le scuole statali da organi amministrativi dello Stato, che istituisce le scuole stesse. Da questo tipo di rapporto mediato si vuole giungere ad un tipo di rapporto immediato tra scuola e società, pur se finora da parte di nessuno si individua esattamente la vera società alla quale la scuola dovrebbe immediatamente congiungersi soltanto la mediazione statale. Nel ‘73 si approvò la legge delega sullo stato giuridico del personale della scuola che previde e prefigurò gli organi collegiali di governo della scuola. Oggi si continua a dire che, con la istituzione di tali organi, si è inaugurata la gestione sociale della scuola e perciò si è avviato il processo che deve stabilire il nuovo rapporto tra scuola e società caratterizzato dalla sua immediatezza. Sennonché quando si ricerca la natura della società fatta entrare nella scuola con la istituzione degli organi collegiali si rileva che si tratta di una società molto corporativa, che è quella dei suoi attuali insegnanti, dei suoi presenti alunni e dei loro genitori.”

Pag. 8 “È una società fluttuante e passeggera e comunque non è la società alla quale apparteniamo tutti, anche chi come me non è attualmente insegnante, né alunno né genitore di alunni. Io che sono cittadino a Roma mi sento rappresentato dal sindaco, della giunta e dal consiglio comunale di Roma perché ho partecipato con il mio voto all’elezione democratica di questo consiglio. Ma non mi sento rappresentato da nessuno dei consigli di Istituto presenti e operanti nel comune di Roma pur sentendomi cointeressato alla vita e all’attività della scuola come pubblica istituzione finanziata anche con l’introito delle imposte che io pago allo Stato. Quello che rende estremamente difficile sviluppare in modo fruttifero l’attuale dibattito sulla riforma dell’amministrazione della nostra scuola è proprio la indeterminatezza del concetto di società con cui la scuola dovrebbe stabilire un più diretto rapporto.

Quando si tenta di abbracciare questo inafferrabile fantasma della società si finisce con l’abbracciare non la vera società di cui tutti siamo membri ma solo la corporazione scuola, come corporazione degli insegnanti, alunni e genitori. Mi piace citare a questo punto quello che scrisse un testimone insospettabile come l’ex Ministro della P.I. Luigi Gui, appartenente al partito nel quale la spinta al restringimento corporativo della società alla quale la scuola dovrebbe connettersi sembra avere le più forti radici storico-culturali. Nel 1975 Gui scrisse esattamente: La scuola italiana si è costituita e sviluppata sulla base dell’impostazione che si usa chiamare napoleonica. Si tratta, cioè, di una scuola promossa dallo Stato come apparato e perciò centralizzata e gerarchica, finalizzata al rilascio di titoli e diplomi concessi e garantiti dalle autorità statali, e pertanto conseguiti su programmi e secondo ordinamenti e controlli dalle medesime predisposti. Il suo collegamento con la società civile è concepito mediato: appunto attraverso l’intervento dell’apparato statale.”

Valitutti parlò insomma da amministratore severo ma cosciente che non discuteva solo di denaro ma soprattutto di intelligenze giovanili. E a queste lo Stato doveva rivolgersi. Il testo della relazione, ricco di spunti e di proposte, parte dall’esame dell’art. 33 della Costituzione, dallo statuto della Regione Sicilia del 1946 e dalla forma stessa assunta dal tipo di amministrazione della scuola statale, ma – precisa Valitutti – : ” La verità è che il costituente non si pone neppure il problema della prefigurazione di un tipo di amministrazione della scuola statale differente da quello posto in essere nella stessa formazione storica della scuola italiana, tipo di amministrazione che lo stato liberale aveva via via costruito e di cui il fascismo aveva mantenuta intatta la struttura fondamentale introducendovi alcuni meccanismi e procedimenti più autoritari. Sembrò che bastasse sopprimere quei meccanismi per restituire quella struttura alla sua purezza originaria, caratterizzata da un tipo di rapporto tra scuola e società, mediato, per così dire, da uno specifico apparato amministrativo statale, ridivenuto responsabile attraverso il Ministro della P.I., vertice del sistema, verso il Parlamento, eletto periodicamente dal popolo ed esclusivamente competente in materia di legislazione scolastica, tranne le eccezioni sopra specificate. Bisogna sapere preliminarmente se si vuole serbare questo tipo di Stato oppure lo si vuole modificare. Bisogna aver chiara questa idea per subordinare non la scuola allo strumento amministrativo ma lo strumento amministrativo alla scuola e alle sue irrinunciabili esigenze.”

Il ricordo di Valitutti

Il Sen. Valitutti scomparve il 30 settembre 1992. Amici ed avversari lo ricordarono in tutta Italia con stima e rispetto. Con Bozzi e Malagodi fu l’ultimo grande vecchio a lasciarci. Il Partito e la società italiana gli devono ancora molto. Si intrecciano i miei ricordi con la realtà storica di una visione della scuola come mezzo per elevare l’uomo attraverso la cultura.

Ebbi con lui un rapporto conflittuale, se così vogliamo dire, ma certo leale e costruttivo. Alla fine di ogni discussione e di ogni confronto, la Commissione nazionale scuola di cui il Partito e lui stesso mi avevano affidato l’organizzazione, concludeva il proprio lavoro con un documento, che il Partito faceva suo: come avvenne per quello che consentì a Valerio Zanone, Ministro della Difesa nel successivo governo di pentapartito (luglio 1987–luglio 1989), di far rinviare la riforma della secondaria e a me di elaborare il pdl di reinserimento dello studio del latino nella scuola media, presentato dal compianto Paolo Battistuzzi nel ’91 e ripresentato nel ’92.

Il 19 febbraio 1992 l’Ufficio Scuola del PLI milanese volle ricordare Valitutti. Il prof. Vittorio Enzo Alfieri tenne la relazione. Egli, illustre liberale e uomo di alta cultura, centrò l’intervento sull’impegno di Salvatore Valitutti per ridare forza alla cultura nel Partito e lesse una lettera che Valitutti gli aveva inviato tempo addietro: ”Croce, in qualche suo scritto, definì il Partito Liberale il partito della cultura. Aveva perfettamente ragione. Un Partito Liberale deve essere necessariamente al più alto livello al quale è giunta la cultura del paese nel quale opera. Purtroppo oggi quello che si chiama Partito Liberale è culturalmente denutrito. La denutrizione culturale può non essere mortale per i partiti di interesse o fideistici ma è mortale per il Partito Liberale.Personalmente faccio tutto quanto posso per rivitalizzare il Partito, ma so bene che l’anemia culturale che colpisce un partito richiede cure lunghe e pazienti mentre i tempi della politica sono più veloci e sbrigativi. Io non so se faremo in tempo a salvare il Partito.Ti debbo anche dire che io sono piuttosto diffidente verso gli amici liberali che si etichettano come liberali di destra, perché di regola sono più arretrati degli altri sul terreno culturale.”

Così lo ricordai sulla Gazzetta di Parma il 3 novembre 1992 in un articolo dal titolo “In memoria di un saggio”:

“Sembri un ragazzino”, mi disse il prof. Valitutti al congresso di Firenze vedendomi con un maglioncino rosso e la camicia aperta sul collo. A quel tempo la nostra collaborazione era già consolidata da innumerevoli riunioni della Commissione scuola nazionale e da un grande convegno, che avevo organizzato all’Executive di Milano, presente lui quale ministro della Pubblica istruzione.

Fu quello il culmine di molti convegni, conferenze e semplici incontri informali con professori, presidi e famiglie sui problemi di una scuola, che stentava ad uscire dalla contestazione e anche solo a bandire i concorsi direttivi e a cattedra, che proprio lui rimise in moto. Chi ha seguito il nostro lavoro sa che da allora la politica scolastica del PLI e quella nazionale subirono una svolta.

Successivamente la collaborazione con Salvatore Valitutti si sviluppò in moltissime occasioni: dai consigli nazionali alle riunioni della Commissione. L’ultimo impegno, che condussi a termine con il suo tacito consenso, fu la presentazione della legge sul reinserimento del latino nella scuola media, che proprio all’inizio della corrente legislatura, l’on. Battistuzzi ha ripresentato.

Interprete dell’insegnamento einaudiano, il senatore Valitutti non distingueva i docenti per categorie ideologiche, ma per il livello di capacità e cultura che dimostravano. Tal che essi si riducono a due categorie: i professori che conoscono la propria materia e che per questo riscuotono l’universale apprezzamento; e quelli che non la conoscono.

Dotato di sterminata cultura e forte capacità argomentativi, il Senatore riusciva sempre ad elaborare tesi che, anche quando non accolte, fuori e dentro il partito, erano tenute in grande stima, quasi come vie d’uscita nelle più difficili situazioni.

Nella concezione liberale la scuola non è uno strumento di potere ideologico né politico, ma il luogo in cui far lievitare la mente e l’animo dei giovani, perché solo accrescendo la loro cultura si garantisce il progresso del popolo.

Da questo principio il senatore non si discostò mai ed in ogni occasione egli ce lo ricordava. Sapevamo che da tempo era malato e che non usciva più da casa, ma la sua lucida mente ci aveva illuso, con la assiduità degli iscritti e della presenza sulla stampa, che sarebbe vissuto ancora molto e che la scuola avrebbe ancora goduto dei suoi servigi. Una non rinviabile riunione di partito mi ha impedito di partecipare ai suoi funerali, pur trovandomi a Roma; ed egli lo avrebbe apprezzato: “Prima il partito!”, soleva dire.

Scrivo in treno, nel viaggio di ritorno a Milano e rifletto sulle ultime grandi perdite del partito, ma soprattutto della Patria. Prima Bozzi, poi Malagodi ora lui. Da insegnante, di prima nomina mi ero avvicinato al partito liberale e li avevo conosciuti superficialmente; poi, presa la tessera e cominciata un’intensa attività tuttora viva, li frequentai e li conobbi, cercando d’imparare il più possibile, non solo la dottrina, ma soprattutto quel senso dello Stato e del servizio al Paese, per il quale anche una azione in apparenza insignificante, ha il suo valore per il Bene pubblico. Con il senatore tutti gli attori sono usciti dalla scena ed un ciclo della nostra, della mia vita, si è concluso.

Parlando da insegnante a insegnanti, sentii dire questo da Salvatore Valitutti: “Il docente a cui il giovane si rivolge, può sentirsi sconfitto quando il giovane non domanda più nulla, perché non ha più bisogno del suo maestro; invece, proprio allora questi ha vinto perché ha conseguito il suo più alto successo: l’autonomia dell’allievo, ormai capace di camminare con le proprie gambe”.

Egli annetteva grande importanza al diritto allo studio, un problema al quale dedicò un volume, perché tramite questo si amplia la sfera della cultura e della libertà dei giovani, capaci e meritevoli, che devono camminare da soli. Infatti: “L’analisi del diritto allo studio trova una sua corretta collocazione in una prospettiva di riformismo liberalista teso alla conservazione dei valori di libertà e alla estensione della loro sfera di attuazione” (Il diritto allo studio – Armando Editore, 1980).

Ricordando Bozzi, egli richiamò l’elogio della morte del saggio, scritto da Benedetto Croce, il quale attende la morte in piena attività, “perché in ozio stupido essa non ci può trovare”. E Valitutti così ha fatto: ha scritto e lavorato sino alle sue ultime ore di vita, tanto che avremmo dovuto incontrarlo l’8 ottobre, in una prevista riunione della Consulta liberale della scuola. In questa egli ha sempre favorito la libera discussione e, spesso, mi sono trovato in contrasto con lui, ma sempre si raggiungeva un equilibrio di tesi, naturale nei liberali, ogni volta che un interesse generale e superiore lo imponga, nell’azione quotidiana.

Così imparammo da lui che la grande filosofia, la teoria deve divenire prassi; e lo dimostrò quando, da ministro, si interessò anche del funzionamento dell’Amministrazione scolastica, sino ad allora e dopo disdegnata dai suoi colleghi ministri.

Teoria e pratica sono le due ruote della bicicletta: per quanto importante, l’una senza l’altra non serve. E’ la cultura umanistica-meridionale, tanto sconosciuta e negletta, che ci fa ragionare così. Una personalità a tutto tondo è scomparsa; ma noi siamo i suoi ostaggi: noi dobbiamo continuare.

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Alberto Giomo (1917-1977)

Alberto Giomo fu professore di filosofia presso il Collegio San Carlo di Milano e combattente nella II guerra mondiale, consigliere provinciale di Milano e deputato in Parlamento. Incarnò la figura del docente prestato alla politica, e in questa riversò la cultura ed il rigore del pensatore, che gli venivano dai suoi studi. Nel 1965, invitato negli Stati Uniti dal governo federale, incontrò Robert Kennedy. Il Partito lo volle al posto a lui più confacente, affidandogli la responsabilità della politica scolastica. Il Parlamento si arricchì della sua preparazione e della sua competenza circa i problemi dell’educazione, che però non esaurirono il suo impegno di parlamentare; infatti, Giomo si occupò delle carceri, delle regioni, dei trasporti…

Ma, in questa sede, lo ricordiamo per i suoi interventi per la scuola e per l’università. Traggo la documentazione essenziale da due discorsi tenuti alla Camera dei Deputati e dalla relazione presentata al Consiglio Nazionale del partito circa lo stato della scuola pubblica:

Per una vera riforma dell’Università in Italia (22 ottobre 1971)
Lo stato giuridico degli insegnanti (29 maggio 1973)
Relazione al Consiglio Nazionale (1975).
Per una vera riforma dell’Università – 1971

È l’epoca del ministro Riccardo Misasi (DC), nella quale si raccolgono i primi frutti avvelenati della scuola media unica (istituita con la L. n°1859 del 31.12.1962). È il momento in cui i governi si accaniscono sull’Università, stravolgendone la fisionomia, con i dipartimenti copiati da esperienze straniere e l’insieme degli organismi burocratici destinati a farli “funzionare”. Richiamandosi proprio alla carenza di ben 97 mila insegnanti nella scuola media e ai conseguenti vuoti di organico, colmati con personale disoccupato o delle più diverse provenienze: chimici, farmacisti, elettrotecnici improvvisatisi insegnanti, Giomo alla Camera dice: “In tal modo si sarà sanato in parte il problema della disoccupazione intellettuale nel nostro paese, ma non si è sanato il problema fondamentale della scuola che è, anche questo, problema di vocazione all’educazione”.

Giomo intuisce che l’istituzione dei dipartimenti porterà lo stesso caos nella Università, poiché nella loro stessa ratio è presente il germe del compromesso. Egli afferma: “Il primo compromesso è fra il concetto – portato avanti dalla democrazia cristiana, dai socialdemocratici e anche dai socialisti – della collegialità degli organi che debbono reggere l’università; collegialità vista in maniera estremamente atipica. Io non capisco perché quando abbiamo varato la legge che prevedeva l’istituzione degli organi che regolano la vita del genio civile o di altri organi dello Stato non abbiamo pensato di immettervi i professori universitari. Dal momento che vi abbiamo immesso i rappresentanti dei sindacati, io mi auguro che quando finalmente arriveremo ad attuare gli articoli dalla Costituzione che disciplinano la materia sindacale, potremo introdurre in questi organi deliberanti anche i professori universitari, per un principio di pariteticità fra i professori e i sindacalisti. Da una parte abbiamo quindi questo concetto della collegialità che, come ho detto, ha assunto una dimensione faraonica nella legge in esame, e dall’altra vi è invece la seconda interpretazione: il concetto del collettivo, che è qualche cosa di diverso. Siamo qui, in sostanza, alla scolastica decadente, siamo al principio della doppia verità. Da una parte abbiamo coloro i quali vedono in questa legge lo spirito democratico della collaborazione di tutte le forze, però nel rispetto dell’autonomia di ciascuna, dell’autonomia del pensiero e della coscienza di ciascuna: in uno spirito, quindi, evidentemente democratico. Dall’altra parte, abbiamo invece una visione diversa, una visione rispettabilissima, ma comunque non accettabile in un sistema pluralistico come il nostro: il concetto del collettivo, del soviet. Abbiamo cioè il dipartimento, che ad un certo momento si traduce addirittura in un’azienda che contratta, che opera e che poi divide i compensi collettivamente, in ciò assomigliando molto a certe forme di soviet o di kolchoz. Vi è poi un secondo compromesso più grave e cioè quello tra la struttura napoleonica che è rimasta nella legge (l’esame di Stato ha valore legale) e la struttura libera, anglosassone dell’università”.

Questa spinta verso la liberalizzazione degli accessi universitari e dei piani di studio porterebbe a un tipo di scuola caratteristico del mondo anglosassone: “Ma noi – si domanda Giomo – che cosa abbiamo fatto? Una legge che ha un vestito anglosassone, una gonnellina scozzese e in testa un cappello napoleonico. Queste sono le premesse di carattere generale che noi facciamo su questa legge. Quali sono, secondo noi, i punti qualificanti della riforma? Essi sono: il dipartimento obbligatorio, la ricerca scientifica, il ruolo dei docenti universitari e l’assoluto divieto, ad essi imposto, di esercitare libere professioni, gli organi di governo della università, il mantenimento del valore legale dei titoli di studio, di cui ho già parlato, e infine quel problema che è rimasto in sospeso e che quest’aula deserta dovrebbe un giorno decidere: la sistemazione in ruolo ope legis o con concorsi speciali dei docenti non di ruolo attualmente in servizio”.

L’On. Giomo così esortò i colleghi deputati: “Lasciamo la libertà all’insegnante, lasciamo la coscienza della libertà all’insegnante, particolarmente nelle materie umanistiche”. Questa è l’essenza stessa della scuola: l’educazione di chi apprende, la sua formazione, non solo di probabile futuro studioso, ma soprattutto di cittadino, capace di autogovernarsi nel corso della propria vita. Più avanti, l’Oratore constata che si voleva politicizzare l’università (ndr: e ci si è riusciti) con “dipartimenti di ideologie affini”. Egli denuncia un più grave rischio: “La libertà d’insegnamento, restaurata dopo la caduta del fascismo, è ora esposta ad un attacco ancora più insidioso e illiberale… la facoltà – e quindi l’eventuale arbitrio – concessa al consiglio di dipartimento di determinare i corsi d’insegnamento da impartirsi anno per anno da ciascun docente”.

Per i liberali la severità della ricerca scientifica non può essere separata dalla libertà del ricercatore. Ma l’abolizione della libera docenza, che dava voce alla scienza non ufficiale, non per questo meno valida e necessaria, fu l’inizio del processo di decadenza dell’università. Per di più tale istituto ci veniva copiato in tutto il mondo, così come i licei, mentre noi l’abolivamo e li vogliamo abolire, subdolamente, annacquandoli. La proposta liberale era e rimane ancora la più limpida: “Tornare alla tradizionale distinzione tra professore ordinario e straordinario”. Di questo orientamento la motivazione è limpida e secca: la scienza non va asservita alla politica. Afferma Giomo: “Fondati timori si prospettano circa l’emarginazione dei docenti che siano lontani dalla politica e che potrebbero essere oggetto di ingiustificate pressioni da parte delle maggioranze costituite in seno agli organismi investiti di maggiori poteri decisionali, come ad esempio il consiglio di dipartimento”.

Lo stato giuridico degli insegnanti – 1973

Preceduto dal grande sciopero del luglio 1970 e dalle lotte sindacali, a volte non chiare, il discorso alla Camera veniva svolto mentre si preparavano i maxicorsi abilitanti ed i maxiconcorsi: esattamente come oggi. Nulla di nuovo sotto il sole. La cornice fu quella delle violenze e degli assassinii perpetrati dalle Brigate Rosse. Il Parlamento è assente, perso ora in scaramucce ora in piccoli e grandi interessi. Il PLI avverte l’errore di sovrapporre i due elementi della contesa: lo stato economico e lo stato giuridico dei docenti, che invece i sindacati artificiosamente confondono. L’intervento si addentra nell’esame degli organi collegiali previsti dai D D, che furono approvati il 31.5.1974.

Giomo richiama i tempi di lavoro non riconosciuti ai docenti; per esempio: la correzione dei compiti, l’aggiornamento, la guida dei ragazzi nelle ore non di lezione, le spese per le assenze; ma il vero problema è quello “della immissione in ruolo degli insegnanti, a condizione che siano in possesso dell’abilitazione e abbiano l’incarico a tempo indeterminato. Questo significa praticamente abolire il sistema dei concorsi a cattedra. Noi non abbiamo tralasciato occasione per combattere questi corsi (abilitanti)”.

Il problema – dunque – fu affrontato in Parlamento da Giomo, che affermò: “Noi saremo domani (come dice il Rapporto Faure, UNESCO 1972) ciò che le istituzioni scolastiche saranno state capaci di farci diventare. Ora uno dei maggiori strumenti di rinnovamento è rappresentato indubbiamente da una sempre maggiore idoneità professionale del corpo docente: si pensi al progressivo affermarsi del concetto di educazione permanente. Ebbene, io credo che attraverso questo progetto, che immette oves et boves nei ruoli della scuola italiana, ci allontaniamo evidentemente dai principi dell’educazione permanente, che ci vengono suggeriti anche in campo internazionale. Oggi, quindi il massimo sforzo andrebbe compiuto per perfezionare i processi selettivi della preparazione del corpo docente, per potere affidare le sorti della scuola a persone davvero capaci. Su questo punto l’accordo sembra invece tenere conto più dell’esigenza di una facile e rapida sistemazione in ruolo del personale docente che non degli interessi superiori della scuola, in quelle prospettive di sviluppo giustamente sottolineate dal Rapporto Faure”.

E ancora: “…Da decenni noi abbiamo lottato con impegno e con tenacia affinché tutti gli insegnanti senza distinzione, dalla scuola materna alla scuola secondaria superiore, siano forniti di laurea. Il principio dell’estensione a tutto il personale docente del requisito della preparazione universitaria ci trova dunque pienamente consenzienti. Il problema si pone, come è noto, più che altro per gli insegnanti della scuola elementare e materna, per i quali è ormai convincimento comune che non possa non esigersi una preparazione universitaria. Ai fini della formazione dell’uomo, infatti, l’opera del maestro o dell’insegnante di scuola materna incide in misura non certo inferiore a quella di un docente universitario. È fuori di dubbio che una grande responsabilità, al fine della formazione degli uomini e dei cittadini di domani, ricada su queste categorie di docenti. Pertanto ogni ulteriore rinvio della riforma dell’attuale sistema di formazione degli insegnanti di queste scuole implicherebbe conseguenze gravissime”. Si arriva oggi, più di trent’anni dopo! “La lotta era e rimane, quella tra la società policentrica, aperta a tutti e il centralismo; ma spesso, di fronte al potere, il virus centralista ed esclusivista esercita sempre il suo grande fascino”.

Giomo fu profeta: trentasei anni dopo le cose non solo non sono cambiate, ma peggio, subdolamente sono cambiate solo in apparenza poiché la strombazzata scuola dell’autonomia, a cui quasi tutti per convenienza fingono di credere (Legge n. 59 del 15.3.1997 Bassanini e DPR n. 275 del 8.3.1999 Berlinguer) mantengono saldo il potere centrale. I fatti ci dicono non solo che manca la volontà politica per decentrare ma anche – purtroppo – che la cosiddetta opposizione di Destra non si è opposta a niente. Probabilmente per misere contropartite, che con la scuola e la cultura non hanno nulla da spartire.

Relazione al Consiglio Nazionale del PLI – 1975

Non essendo più deputato, egli dedicò maggiori energie al Partito a Milano e a Roma. Il Consiglio Nazionale gli chiese di illustrare la situazione della scuola italiana. Egli partì da un assunto già sostenuto alla Camera il 12 marzo 1969 del quale riportiamo un passaggio: “Ogni provvedimento scolastico presentato finora dai democristiani è identificabile come strumento di lotta politica: strumento per il rafforzamento del potere dei singoli o del potere del partito di maggioranza relativa. La scuola vista non come bene comune dalla nazione, ma come instrumentum regni. L’altra politica quella che avrebbe dovuto portare in alto la scuola e le coscienze, rinvigorire i valori morali ed ideali, preparare un nuovo futuro alle venienti generazioni, richiedeva un prezzo troppo alto, il prezzo dell’impopolarità, presso tutte quelle categorie di persone che pretendono molto e vogliono o non possono dare che poco. Lo spettacolo della nostra scuola non edificante, se visto dall’interno, lo è ancor meno quando lo si raffronti alle scuole di altri paesi più civili del mondo che, nella grande maggioranza, sono oggi tutte impegnate, dall’est all’ovest in uno sforzo di radicale rinnovamento per potersi adeguare ai nuovi tempi e prepararsi a fronteggiare le nuove esigenze che già si profilano all’orizzonte. In questi altri Paesi sono state organizzate in modo da essere al tempo stesso scuole di massa e scuole selettive: esse accolgono tutti i giovani, ma operano via via inesorabili selezioni, perché senza selezione, nessuna scuola può essere feconda di frutti”.

E concludeva: “Noi possiamo ben dire: la scuola muore, ma a chi importa, chi piange per la morte della scuola?” . A noi – suoi eredi spirituali – è toccato di peggio: la scuola è morta, sepolta sotto un cumulo di carte, leggi, leggine, decreti, circolari e stupide ordinanze che la paralizzano.

Egli rivendicava la coerenza dei liberali contro la nazionalizzazione dell’ignoranza e nell’aver sempre sostenuto che “qualsiasi riforma scolastica non poteva dare frutti positivi se non inserita in una seria programmazione a lungo termine che tenesse conto delle esigenze economiche e sociali del Paese”. Di questo limite attribuisce la responsabilità ai comunisti e al centrosinistra nel suo insieme. Dal 1962 – in effetti – non si hanno che “miniriforme sotto la spinta della demagogia più becera”.

Ma a questo siamo arrivati. Dopo un quarantennio, il governo D’Alema ha distrutto tramite Berlinguer l’impianto culturale della nostra scuola e l’opera viene conclusa dal ministro De Mauro: niente più voti, né interrogazioni, né disciplina: pagella pazza imperversa e disorienta la classe docente. Oggi il governo di centro destra, per insipienza e incapacità progettuale, persegue la stessa linea e gli stessi scopi. Anche chi avverte questo clima e questa contraddizione tace. Per interesse evidente. Il pervicace disegno marxista, alleato con quello post-industriale di Berlusconi, è compiuto, grazie anche a una opposizione tanto incapace quanto ignorante e interessata solo alla diffusione dei media, che sono la negazione della cultura e della ponderatezza, e alle privatizzazioni selvagge, non affatto liberali. In realtà non dovremmo nemmeno lamentarci: sciolto il PLI, i liberali si sono voluti disperdere, senza costruire più nulla di originale. La storia delle riforme scolastiche richiamata da Giomo è storia di fallimenti e di provvedimenti aulici e di facciata, come la cosiddetta autonomia, dove la retorica stravince.

La riforma dell’Università sarebbe dovuta procedere di pari passo con quella della secondaria, secondo Giomo e i liberali, ma così non è stato e non è. Non sono mancati i cavalli di Troia come il PRI e la Commissione Biasini, che andò ben oltre le già pericolose linee stabilite dal Convegno di Frascati. Limite principale di quelle conclusioni fu aver proposto la deprofessionalizzazione della scuola media superiore, contraddicendo la conclamata esigenza di anticipare gli studi con “il trasferimento della professionalizzazione all’ambito regionale … o all’ambito universitario”. Ciò avviene oggi (il nuovo obbligo scolastico) con le conseguenze psicologiche, sociali ed economiche, ormai emergenti e visibili.

L’altro versante dello scontro fu la battaglia contro il liceo e il latino ma – osserva Giomo – “mentre si voleva eliminare il liceo, la liberalizzazione degli accessi universitari e la riforma degli esami di stato hanno avuto l’effetto di estendere il principio gentiliano della maturità alle prove conclusive di tutte le scuole secondarie superiori licealizzando l’intera fascia dell’istruzione secondaria”. Sicché quel “reperto arcaico” com’era definito il liceo nella relazione della proposta comunista, è stato assunto a modello onnicomprensivo di tutta la secondaria. Oggi, anche formalmente, questo avviene per effetto della Legge n. 30 del 10.2.2000 la quale all’art. 4 recita: “La scuola secondaria si realizza negli attuali istituti di istruzione secondaria di secondo grado che assumono la denominazione di licei”. L’assunto si commenta da sé. Ma si deve notare che, mentre le nazioni come la Francia, dove la liceizzazione forzata è in atto da molto tempo, ne denunciano il fallimento, l’Italia scopiazza male e con ritardo errori altrui.

Ma non tutto il PLI era schierato a difesa di quei principi. Talché Giomo accusava il progetto (pdl n. 1437 del 6.5.1977) presentato dal PLI in quegli anni di ricalcare le tesi degli altri partiti e della Commissione Biasini: vale a dire la scuola unitaria e opzionale. E si chiedeva: ”Il nostro riformismo non ricalca i vecchi schemi di una scuola statalistica verticistica, di struttura napoleonica piuttosto di realizzare il grande salto di qualità di una scuola aperta di tipo anglo-sassone?”. In quel tempo la segreteria del PLI passava alla sinistra interna, con Segretario Generale l’on. Zanone. Il PLI tornava al governo. Questa novità da sola spiega molte cose.

Concludendo: è stato Enrico Berlinguer a dichiarare che “lo studio è sforzo, tirocinio faticoso, disciplina, come condizione di conoscenza critica della società e della storia”. E Giomo, dal canto suo, chiosava: “La coscienza pubblica comincia ad assegnare il valore che meritano, cioè nessun valore, alle presenti riforme, ma non si è reso un servizio ai giovani specialmente a quelli delle classi più diseredate i quali si attendono dalla conquista del titolo, non di rado conseguita a prezzo di enormi sacrifici, l’ingresso nel mondo del lavoro poi nel fatto impedito o quanto meno di molto ritardato per la non rispondenza tra il titolo stesso e l’effettivo possesso dei requisiti necessari ad occupare il desiderato posto di lavoro. Ed è così avvenuto che tanti tra i disoccupati o i sottoccupati intellettuali, specialmente delle aree meridionali, siano andati ad ingrossare le file dei movimenti politici di estrema destra e di estrema sinistra, nonché quelli extraparlamentari, accrescendo così quell’ondata di disamore, di risentimento, di accuse al regime liberal-democratico, indicato come il nemico dei giovani ed a cui si deve in non lieve misura il discredito che ha investito le istituzioni repubblicane”.

“Questi dunque sono, a mio avviso, i maggiori problemi che ci tocca di affrontare nell’opera di riforma della scuola secondaria superiore. Su molti di essi vi ho esposto il nostro orientamento; su altri il mio personale pensiero; mi auguro che ora si apra un ampio dibattito che consenta di meglio chiarire i temi, di prospettarne altri, di approfondire la ricerca di idonee soluzioni”. Ed è proprio questo che i liberali di oggi, se ancora ce ne sono, dovrebbero fare.

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Guido Sasso (1920-1989)

Avvocato e ordinario di diritto negli istituti della tradizione liberale. Domenica, 23 maggio 1976, presso il museo della Scienza e della Tecnica di Milano si tenne il convegno del PLI sul tema: “Costruire insieme la scuola secondaria superiore”. Il convegno fu, in effetti, di portata nazionale ma il clima interno al partito in quel tempo non ne permise un utile sviluppo. Quella giornata di studio fu voluta e organizzata proprio da Guido Sasso.

Erano, allora, in discussione alla Camera diverse proposte di legge di riforma della secondaria il PLI aveva partecipato alla formulazione del pdl presentato dal governo, allora presieduto da Giulio Andreotti. Il PLI avrebbe presentato poi una propria proposta. Scopo del convegno era presentare bene un quadro d’insieme di tutte le proposte in discussione e raccogliere pareri che arricchissero quella che gli uffici del partito stavano elaborando. Sasso predispose un numero speciale, il n° 4 dell’aprile 1976, ormai introvabile, del mensile Incontri Liberali, edito dal Gruppo Regionale Liberale, in cui, senza alcun commento di parte, i testi integrali di tutte le proposte di legge venivano comparati.

Leggiamo nella presentazione da lui scritta: “L’invito a partecipare al nostro convegno è rivolto in primo luogo a quanti, operando nel mondo della scuola, hanno potuto maturare quella esperienza che è senza dubbio il punto di partenza per lo studio di una organica riforma della nostra scuola secondaria superiore. Riteniamo però che sia altrettanto utile l’apporto di quanti, rappresentando le categorie imprenditoriali e quelle dei lavoratori, sono maggiormente in grado di rappresentare le esigenze del mondo produttivo in cui i giovani hanno il diritto di inserirsi, convinti come siamo che le possibilità di questo loro inserimento siano strettamente connesse con la loro esperienza scolastica…I Gruppi parlamentari liberali, che hanno a suo tempo partecipato alla formulazione del progetto Andreotti, hanno allo studio un nuovo progetto, ma intendono conoscere, prima di ulteriori determinazioni, i pareri che – ci auguriamo numerosi – verranno espressi in occasione del nostro Convegno. Da qui un caloroso invito a Loro tutti, nella speranza di poter contare su una partecipazione numerosa, a che vogliano farci partecipi della loro esperienza, nella fiducia di poter raggiungere risultati veramente costruttivi nell’interesse della nostra scuola e della nostra società”. Così la proposta di legge liberale n° 1437 effettivamente presentata alla Camera il 6 maggio 1977, a firma Zanone, Bozzi, Costa, Malagodi, Mazzarino, fu arricchita dalle idee esposte e raccolte in quella occasione.

Successivamente a Milano presso l’Aerhotel Executive il 28 ottobre 1979, l’avv. Sasso da tempo consigliere regionale contribuì con una propria relazione al convegno di studio sul tema “La figura e la professionalità del Docente e del Dirigente: problema vitale della scuola”, organizzato dall’Ufficio Scuola Provinciale e dalla Direzione Provinciale del PLI milanese. Il convegno segnò la prima “uscita pubblica” di Salvatore Valitutti in veste di neoministro della Pubblica Istruzione.

La relazione introduttiva fu tenuta da Egidio Sterpa, membro Commissione P.I. Camera dei Deputati, altre comunicazioni da me e dal Prof. Guido Martina. Prima del convegno andai a trovare l’avvocato Sasso nel suo studio per sottoporgli il mio intervento, ma rifiutò di leggerlo: “Caro D’Elia, sappiamo tutti come si cucina la minestra. Ho fiducia”. Tra i numerosi presenti, che assicurarono un grande successo di stampa e di pubblico qualificato, citiamo il Prof. Vincenzo Tortoreto, Provveditore agli Studi di Milano, ed i rappresentanti dei partiti, dei sindacati, delle amministrazioni locali e della stampa.

Ma Sasso dispiegò pienamente le sue capacità di amministratore pubblico durante il suo mandato di assessore regionale ai problemi dell’Energia (1982-1985). Oggi diremmo, più genericamente, ambiente. Egli fu il primo assessore formalmente incaricato di seguire un problema nuovo per gli italiani, percorrendo e indicando le linee di politica energetica che lo Stato e le altre regioni avrebbero poi ricalcato in buona parte.

Allora trattare di energia significava muoversi in un campo minato e sconosciuto, per gli interessi diversificati che ruotavano e ruotano intorno al problema; e soprattutto perché nessuno sino ad allora sapeva cosa fare. La Regione Lombardia e l’Assessore Sasso precorsero i tempi impostando attività che oggi sembrano ovvie. Tra le numerose iniziative ricordiamo quella di istituire sgravi fiscali e contributi per le aziende che risparmiavano sull’energia (Gazzetta di Mantova, 19.11.83) e sull’uso di questa a favore dell’agricoltura (Giornale di Brescia, 14.12.83). Nel marzo dell’84 fu costituito il “Coordinamento tra le Regioni per incentivare il risparmio energetico”, nella prima riunione ne fu nominato coordinatore l’Assessore Sasso (Il Giorno, 31.3.84). La lunga nota che segue è tratta dai tre articoli citati e quindi va letta riportandosi al clima degli anni Ottanta.

Quella dell’energia è la voce più consistente nel deficit della nostra bilancia dei pagamenti. Una voce che significa più di trentamila miliardi di lire all’anno. Non stupisce quindi se il termine energia è collegato in stretto binomio con quello di risparmio. Un risparmio possibile, ma spesso trascurato. Eppure oggi non mancano apparecchiature, incentivi, campagne promozionali che costituivano la lacuna di un tempo. Del periodo in cui si era incominciato a capire che i tempi dello spreco energetico non sarebbero ritornati mai più e che l’energia, sotto qualsiasi forma, è un bene prezioso del quale occorre fare l’uso più oculato. Le prime campagne per sensibilizzare i cittadini al risparmio energetico non hanno superato la barriera goliardica delle domeniche a piedi, con la circolazione delle vetture a targhe alterne: i disagi furono, allora, superiori al risparmio e la stessa campagna di sensibilizzazione finì per essere ben presto abbandonata. Gli incentivi migliori al risparmio, tutto sommato, sono stati la bolletta del riscaldamento e il prezzo della benzina, in continuo aumento. Forse lo scotto pagato dagli automobilisti non ha impedito di continuare a usare l’autovettura come nei tempi di abbondanza energetica (anche perché l’auto serve spesso per lavorare o per recarsi al lavoro e non sempre i servizi pubblici di trasporto sono efficienti) ma certamente l’alto costo del riscaldamento ha indotto i cittadini a correre ai ripari. Non sono mancate le leggi, la più famosa delle quali è la 373, approvata nel 1976, ma entrata in vigore soltanto nel 1978. Prescrive una temperatura massima di venti gradi, negli appartamenti, e l’erogazione dell’acqua per usi sanitari e domestici non superiore ai 48 gradi. Altra legge in materia di risparmio energetico è la 308 del 1982. Prevede incentivi a fondo perduto, con contributi fino al 30 per cento per coloro che modificano o sostituiscono gli impianti generatori e i sistemi di calore, per ottenere un risparmio di energia. Per poter operare meglio, i venti assessori regionali che hanno competenza in materia di energia hanno dato vita, da tempo, a un Coordinamento nazionale. Nel corso della prima riunione di questo nuovo organismo interregionale, svoltasi il 2 febbraio scorso a Firenze, è stato nominato coordinatore l’assessore all’Energia per la Lombardia, Guido Sasso. Ciascuna Regione farà piani particolari. “Abbiamo deciso – dice l’assessore Sasso – di non effettuare interventi a pioggia, ma interventi per progetti significativi, grazie ai quali sia possibile un consistente risparmio energetico”. Viene pertanto considerato, nell’attribuzione del contributo, il rapporto di consumo energetico prima e dopo l’intervento. Particolarmente interessati da questi contributi risultano quindi i grossi impianti. “Ovviamente – continua Sasso – il risparmio energetico può essere conseguito da chiunque, anche nella climatizzazione degli edifici civili. L’incentivo, a questo riguardo, è importante. È un incentivo che non deve essere considerato fine a se stesso, ma che ha un significato al di là del contributo che la Regione può dare. Faccio un esempio. Se diamo un contributo a chi installa i doppi vetri, non significa che la bontà dell’operazione-vetri è legata alla parziale copertura della spesa, grazie ai fondi della legge 308: sostituire i vetri è sempre conveniente, se si risparmia energia. Ed è un’operazione che può essere pubblicizzata proprio da coloro che l’hanno fatta per primi, utilizzando il contributo regionale”. Risparmia energia, se vuoi altra energia, dice lo slogan coniato da Guido Sasso. E farà piacere ai lombardi sapere che il loro assessore adopera, per appunti, il rovescio dei fogli già scritti, anziché gettarli nel cestino della carta straccia. Nessuno, probabilmente, avverte i benefici di questo risparmio, ma se tutti facessero così…

Allo scadere della legislatura, Sasso riassunse il suo lavoro nel volumetto intitolato La stampa italiana ha parlato di Guido Sasso assessore Regionale ai problemi dell’Energia. Nella presentazione leggiamo: “Tra le mille cose che vorrei dire che ho fatto per dimostrare riconoscenza a chi con il suo voto ha fatto sì che fossi eletto Consigliere della Regione Lombardia, mi pare di poter affermare che la mia attività politica si è incentrata, nel corso dell’ultima legislatura, sulla affatto nuova attività di Assessore regionale ai Problemi dell’Energia. Ho fatto tutto quello che mi prefiggevo? In coscienza mi sento di poter affermare che ho fatto tutto quello che ho potuto. Ho fatto bene oppure ho fatto male? Non spetta a me dirlo, altrimenti correrei il rischio di cadere anch’io in un’operazione di maquillage. Ecco perché ho pensato di farlo dire dagli altri, dai giornalisti, da tutti quei giornali che nel corso di questi anni hanno parlato di me. Attraverso questa rassegna di ritagli di stampa si può rivivere la mia opera di liberale al servizio del cittadino elettore che avrà così un mezzo in più per poter giudicare e votare più liberamente”.

Non fu rieletto. Scomparve l’11 luglio 1989 per un male incurabile.

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Conclusione provvisoria (perché per i liberali nulla è definitivo)

Il 19 aprile 1999, il 28 aprile 2000 a Milano e il 23 aprile 2001 a Messina tenni le prime tre conversazioni sui liberali che ho conosciuto. Questa è l’ultima.

L’esigenza originaria fu quella di richiamare alla mia mente, prima che agli ascoltatori, le figure principali di un segmento della nostra storia; ma via via che il discorso procedeva, si mutava in un’indagine sull’evoluzione della politica scolastica del Partito Liberale Italiano e sui motivi del suo arenarsi, già qualche anno prima della sua fine e del cambiamento della scuola italiana, come traspare dai discorsi e dalle azioni, non solo dei liberali. Le precedenti relazioni si concludevano elencando alcune libertà: quella di lottare per le proprie convinzioni politiche e religiose; quella di affermare e soddisfare i nuovi diritti, determinati dalla trasformazione della società, che non è più solo nazionale o continentale, bensì planetaria.

Qui ne richiamo un’altra ancora: la libertà dall’ignoranza. È la più delicata e difficile da riconoscere, rispettare e attuare, ma resta la prima e fondamentale. Come la stella polare, essa è presente nella vita e nell’opera dei liberali: è teoria e prassi. I grandi Maestri che ho conosciuto lo testimoniano. Essi dimostrano come il cittadino possa attingere la consapevolezza di essere non atomo, ma parte consapevole di un tutto, che l’equilibrio dei singoli può rendere più armonico. Da qui la convinzione che, prima di legiferare, l’uomo politico deve cogliere il contributo del cittadino e creare le occasioni perché questo possa manifestarsi. Nuocciono a tutti, nel campo sociale, le verità rivelate e imposte; alle leggi, infatti, si chiede di regolare le libertà, non di negarle. “Gli abusi possono essere contrastati solo riprendendo a pensare”, come scrisse Malagodi.

Ma in che cosa questi liberali differiscono dagli uomini di altre parti politiche? Ci risponde Benedetto Croce, quando disegna il profilo della Destra Storica: “Uomini per cui la libertà importava la spontanea autorità del sapere, della rettitudine, della capacità, in grado di scegliere il pubblico bene, di esprimere il coraggio della verità, sdegnando come ciarlataneria l’oratoria dei demagoghi o come arte di corruttela la combinatoria degli interessi individuali o regionali o dei gruppi”. Ciascuno di loro potrebbe dire di sé: “cursum consummavi, fidem servavi”.

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