Lezione della Scuola di Liberalismo di Milano – 8 marzo 2002

Nel febbraio del 1995 il segretario generale della NATO Willy Claes, un belga poi costretto alle dimissioni perché coinvolto in uno scandalo di tangenti, indicò pubblicamente nell’estremismo latente nell’Islam il nuovo pericolo per l’Occidente dopo l’avvenuto crollo del blocco sovietico: «il fondamentalismo islamico ‑ queste le sue parole ‑ è ora una minaccia per l’Alleanza altrettanto grande di quella che è stato il comunismo». L’opinione di Claes, coerente con lo schema dello “scontro di civiltà”, non era affatto isolata. Ralf Dahrendorf ad esempio aveva scritto che «l’avanzata dell’Islam è la questione più importante che il mondo deve affrontare dopo la caduta del comunismo». Nel giro di pochi giorni Claes fu però costretto a smentirsi con questa nuova dichiarazione: «Il fondamentalismo religioso, islamico o di altro tipo, non riguarda la NATO. Le cose che preoccupano l’Alleanza Atlantica sono l’instabilità e le minacce alla sicurezza regionale, compresa la proliferazione delle armi. La NATO non ha alcuna disputa con l’Islam».

Il pericolo islamista non fu più menzionato ufficialmente, anzi la NATO è ripetutamente intervenuta a sostegno dei musulmani nei Balcani e nell’autunno 1999 il vice assistente segretario di Stato americano Ronald Neumann dichiarò addirittura che «non vi è alcun conflitto intrinseco tra l’Islam e l’Occidente» e che «gli Stati Uniti non hanno una politica verso l’Islam e non dovrebbero averla». Una dichiarazione alquanto leggera che si giustifica solo considerando che fu pronunciata al Center for Muslim‑Christian Understanding della Georgetown University. Gli americani sostengono che gli europei hanno resistito in sede NATO alle loro proposte di maggiore attenzione alla minaccia terroristica; ma l’11 settembre sono state proprio le procedure di sicurezza negli Stati Uniti a fallire clamorosamente. Ricordo questi fatti per sottolineare che gli europei non possono essere accusati (come magari in altri casi) di aver respinto inviti americani a considerare nuovi pericoli e nuovi obiettivi per la NATO, e che proprio Washington ha ampiamente sottovalutato il problema. Altre sono quindi le ragioni che possono giustificare il fatto che gli americani hanno sostanzialmente ignorato la NATO nella risposta agli attentati dell’11 settembre.

Nell’ultimo decennio l’Alleanza Atlantica è stata impegnata in una complessa trasformazione, indispensabile per sopravvivere alla scomparsa del nemico che aveva determinato la sua nascita e le aveva garantito coesione e sviluppo per quarant’anni. Tale processo di mutamento, pur lasciando inalterato il testo del trattato originario, ha inciso profondamente sulla membership dell’Alleanza, sulle sue strutture e sui suoi compiti. Ancora prima dell’11 settembre 2001, al di là delle dichiarazioni ufficiali di autocompiacimento e della moltiplicazione delle sigle e degli organismi, molti osservatori avevano l’impressione che mancasse una strategia coerente. Le varie politiche varate, allargamento, Partnership for Peace, Atto fondatore con la Russia, Identità europea di sicurezza e difesa (ESDI), missioni di mantenimento o imposizione della pace, “guerra umanitaria” come in Kosovo: tutte queste cose, più che tessere coerenti di un mosaico, sembravano le facce del cubo di Rubik, che possono essere assemblate con molta difficoltà in più modi. Già nel 1999, lo storico americano David Calleo aveva scritto che «se gli americani cominciassero a percepire la NATO come una camicia di forza che impedisce di agire, o se gli europei la vedessero come un modo per invischiarli in politiche statunitensi sgradite, la Nato stessa diverrebbe una fonte di divergenza piuttosto che di collaborazione».

Dopo gli attentati terroristici di Nuova York e Washington il pericolo per la NATO, forse ancora più grave di un dissenso sul suo ruolo, sembra essere piuttosto quello di scivolare nella irrilevanza. Se così fosse, la tempestiva dichiarazione di principio del Consiglio Atlantico sulla applicabilità dell’articolo 5 del trattato di Washington potrebbe essere il primo ed ultimo caso del genere nella storia della NATO. Dirò subito di non credere vi sia all’orizzonte lo scioglimento della NATO; del resto 1’UEO ancora sopravvive in forma residuale, dopo aver passato in letargo gran parte della sua esistenza. Certo l’attuale fase di marginalizzazione della NATO potrebbe non essere temporanea e, soprattutto, le nuove tendenze emerse nelle relazioni internazionali, se si consolidassero, imporrebbero un profondo ripensamento della evoluzione dell’Alleanza. A livello sistemico si è riscontrata una crisi delle organizzazioni internazionali e della diplomazia multilaterale, un ritorno in grande stile degli Stati sovrani come attori principali sulla scena mondiale e dell’interesse nazionale come movente esclusivo della loro azione. Kissinger ha apertamente auspicato la rinascita del concerto delle Grandi Potenze. Un problema che suscitò discussioni rilevanti in occasione dei tre maggiori conflitti immediatamente precedenti che videro coinvolti americani ed europei, in Iraq, Bosnia‑Erzegovina e Kosovo, quello della legittimità dell’uso della forza e della necessità di un mandato dell’ONU, questa volta è praticamente scomparso.

La Signora Albright, allora segretario di Stato, il 6 aprile 1999 dichiarò che l’intervento in Kosovo rappresentava per l’Alleanza Atlantica un test per il suo ruolo nel XXI secolo nel campo della “ingerenza umanitaria”; le fece eco nell’autunno successivo, il ministro degli esteri italiano Lamberto Dini scrivendo sulla rivista ufficiale della NATO che solo la guerra di Corea aveva avuto un effetto paragonabile al conflitto del Kosovo sulla sicurezza euroatlantica. Sembrava sancita la trasformazione della NATO in uno strumento non più solo strategico ma anche morale, per premiare chi aderisce alla democrazia, ammettendolo nel club euroatlantico, e punire chi ne viola le regole. Ma già l’elezione di Bush aveva cambiato tale prospettiva. Il nuovo presidente si era affrettato a precisare che gli Stati Uniti sarebbero stati più “umili” nei loro interventi internazionali, nel senso che non sarebbero andati in giro per il mondo a cercare di costruire Stati democratici, ma avrebbero agito solo in base al loro interesse nazionale.

Il consigliere per la sicurezza nazionale Condoleeza Rice dichiarò che gli Stati Uniti avrebbero impiegato le loro Forze Armate per vere operazioni militari, lasciando il peacekeeping agli europei. La linea dell’amministrazione nei mesi successivi fu chiaramente improntata all’unilateralismo (senza preoccuparsi di una presunta “opinione pubblica mondiale”, mobilitata per cause come il trattato di Kyoto), a un confronto serrato con le superpotenze di ieri (Russia) e forse di domani (Cina), a una sostanziale indifferenza verso la costruzione di un pilastro europeo della NATO. Tutto ciò naturalmente poneva in crisi i compiti principali che la NATO si era data negli ultimi anni: operazioni di mantenimento o ripristino della pace e “ingerenza umanitaria”.

Le conseguenze dell’11 settembre hanno ulteriormente accentuato queste linee di tendenza. La lotta al terrorismo ha accelerato ed approfondito un netto miglioramento dei rapporti con Russia e Cina del quale, dopo alcuni scontri per saggiare l’avversario, erano già state poste in precedenza le basi. La costruzione della coalizione antiterrorismo ha imposto di accantonare ~ moralistiche e democratiche e di accordarsi con Stati che non sono proprio rispettosi dei “diritti umani”; per esempio sono state necessariamente revocate le doppie sanzioni imposte al Pakistan sia per la costruzione della bomba atomica sia per il colpo di stato militare. L’amministrazione Bush ha indicato che dal punto di vista militare il suo compito termina con la sconfitta dei talebani e non ha alcuna intenzione di impegnare suoi uomini nel peacekeeping in Afganistan, né, comprensibilmente, è parsa particolarmente turbata dalla condotta non proprio da ufficiali e gentiluomini dei mujaheddin. Richard Perle ha dichiarato il 24 novembre che semmai il prossimo impegno militare di Washington sarà l’attacco all’Iraq. Oltretutto bombardare l’Iraq (o la Somalia) è molto meno rischioso che pattugliare 1’Afghanistan e consente ancora una volta di evitare la sindrome del Vietnam. Insomma, al moralismo un po’ ipocrita di Clinton è succeduta la realpolitik di Bush.

Vediamone le conseguenze più dirette per la Alleanza Atlantica. Riguardo ai compiti della NATO, oltre a quanto già detto, va ricordato che le lunghe discussioni sulle operazioni “fuori area” erano approdate ad un compromesso tra gli americani, favorevoli ad un impegno più globale, e gli europei, in primo luogo i francesi, contrari. Nel Concetto Strategico del 1999 vi era quindi un preciso riferimento all’area euro‑atlantica come limite geografico per le operazioni dell’Alleanza ed il segretario generale Solana precisò che «la NATO è, e continua ad essere, un’organizzazione regionale. Non siamo i guardiani del mondo». In realtà si poteva sostenere che 1’Afghanistan fosse proprio ai confini dell’area euro‑atlantica, considerando che le repubbliche ex sovietiche dell’Asia Centrale fanno parte della Partnership for Peace della NATO.

Di fatto Washington non ha sprecato tempo e sforzi per ottenere l’intervento dell’Alleanza, del tutto superfluo, ritenendo utile solo quello del suo tradizionale scudiero britannico, dotato della maggiore capacità di proiezione di forze operative, in subordine quelli di Francia e Germania ed infine quelli simbolici, almeno nella fase calda, di Italia e Spagna, rispecchiando cosi una precisa gerarchia quanto a potenza militare. Il modello della coalition of the willing è prevalso sulla organizzazione nordatlantica e Washington ha segnalato agli europei di non aver bisogno del meccanismo dell’articolo 5.

Se poi, finite le ostilità, si dovrà inviare in Afganistan una forza di pace, la Turchia potrà avere un ruolo importante, con i suoi soldati musulmani ben temprati dalla lotta contro i curdi. Ricordiamo che il Governo di Ankara alla fine di ottobre del 2001 ha inviato in Afganistan 90 uomini per addestrare i guerriglieri dell’Alleanza del nord. La Turchia di Kemal Ataturk ebbe stretti legami con la monarchia afgana degli anni Venti, per la quale costituiva un modello di modernizzazione. Oggi Ankara rappresenta per gli Stati Uniti il tipo ideale di Stato a popolazione musulmana ma secolarizzato ed amico dell’Occidente. Un ruolo ancora più importante della Turchia potrebbe essere ostacolato solo da una partnership strategica di Washington con Mosca. Non va poi dimenticato che negli anni scorsi la Turchia, per ripicca contro il rifiuto della sua candidatura ad entrare nell’Unione Europea, ha cercato in tutti i modi di mettere i bastoni tra le ruote alla creazione di un pilastro europeo della NATO.

Di fatto la ESDI si è rivelata inconsistente politicamente e militarmente. Solo entro il 2003, cooperando insieme su base volontaria, gli Stati dell’UE dovrebbero essere in grado di dispiegare entro 60 giorni e poi di sostenere per almeno un anno, un corpo d’armata (fino a 15 brigate o 50‑60mila persone) capace della piena gamma dei compiti cosiddetti di Petersberg quali descritti nel trattato di Amsterdam. A peggiorare la situazione, l’UE ha avuto la disgrazia, al momento della crisi, di avere come presidente di turno il Belgio, dove purtroppo non vi sono più politici della statura di Paul‑Henri Spaak, che fu segretario generale della NATO dal 1957 al 1961. Da un lato il ministro degli esteri Louis Michel ha irritato gli alleati con le ridicole pagelle ai suoi colleghi e con dichiarazioni critiche sulla politica britannica e americana. Dall’altro la magistratura belga ha posto ostacoli alle richieste statunitensi di interrogare alcuni sospetti terroristi, il che appare assurdo per un Paese dotatosi di una legge che dà facoltà ai suoi tribunali di perseguire i “crimini contro l’umanità” ovunque commessi.

La presidenza di George Bush senior, all’inizio degli anni Novanta, svolse una decisa azione per impedire agli europei di rendersi più autonomi dagli Stati Uniti in campo militare; Clinton a parole favorì la creazione della ESDI, ma di fatto operò per ridurne al minimo la portata. Bush junior è sembrato fin dall’inizio ignorare il problema. Ma senza un riequilibrio dei rapporti di forza tra Stati Uniti ed alleati europei la NATO, passata l’emozione per le vittime delle torri gemelle, avrà o una vita sempre più travagliata o una importanza sempre più marginale. II ministro degli esteri francese Vedrine ha già ribadito il 18 novembre che «il mondo non funziona se un paese fa prevalere la propria concezione ad ogni livello. e che gli europei rispetto agli americani sono «amici, alleati, non allineati.

I nuovi scenari internazionali, oltre che sul ruolo e le strutture, influiranno profondamente anche sulla membership dell’Alleanza, alla luce del nuovo rapporto tra Washington e Mosca. È ampiamente noto che la Russia ha dovuto tollerare assai a malincuore l’ammissione nella Nato dei tre Paesi (Repubblica Ceca, Polonia e Ungheria), già membri del disciolto Patto di Varsavia. Per ammorbidire la Russia, il Fondo Monetario Internazionale sbloccò prestiti per 696,7 milioni di dollari e venne firmato l’Atto fondatore sulle relazioni, la cooperazione e la sicurezza reciproche tra la NATO e la Federazione Russa, dando vita al Partnership joint Council, organismo consultivo attraverso il quale la Russia è informata delle decisioni prese dai 19 membri della NATO ma che non funzionava già prima dell’intervento in Kosovo, che raffreddò al massimo le relazioni tra NATO e Russia. Mosca, non a torto, considerava la politica di allargamento ad est della Nato come il segno di un persistente ed anacronistico atteggiamento antirusso, mantenendosi fermamente contraria all’ammissione di altri nuovi membri, soprattutto dei Paesi Baltici. Già ne gli anni scorsi molti studiosi sulle due sponde dell’Atlantico avevano giudicato un errore l’allargamento ad est della Nato e alcuni di questi critici, dopo il primo round di ammissioni nel 1999, avevano sostenuto che se si voleva proseguire su tale strada era inevitabile includere anche la Russia.

Se la partnership stretta tra Bush e Putin durerà, ovviamente la NATO dovrà rivedere la sua politica di allargamento e dare maggiore voce in capitolo alla Russia. In tal senso il premier britannico Blair ha formulato la proposta, ancora generica ma ripresa dal Segretario Generale della NATO Lord Robertson, di sostituire il Partnership joint Council con un Russia-North Atlantic Council, con 20 posti paritetici, dando a Mosca un maggiore potere deliberativo sulle scelte dell’Alleanza. La proposta è stata criticata da Brzezinski, che vede in essa il rischio di offrire alla Russia il mezzo di sfruttare le tradizionali incomprensioni tra europei continentali ed americani e di trasformare l’Alleanza Atlantica in un organismo impotente come 1’OSCE. Dal canto suo Putin ha proposto la trasformazione (o meglio il ridimensionamento) della NATO da alleanza militare ad alleanza politica. Altri hanno proposto di prendere il G8 come nucleo di una nuova NATO.

Una scelta dovrà essere fatta prima del vertice NATO di Praga del novembre 2002. Una diversa NATO che ruoti intorno ad una partnership strategica tra Mosca e Washington quali conseguenze avrebbe per gli europei? Sarebbero schiacciati dal nuovo duopolio tra Stati Uniti e Russia, o avrebbero modo di sfruttare la presenza di Mosca per ridurre l’egemonia americana? Le incognite sono troppe per dare una risposta. Certo, finora, dalla crisi dell’11 settembre il pilastro europeo della NATO non è uscito rafforzato.

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