Lezione della Scuola di Liberalismo di Milano – 8 aprile 1998

In un’intervista di qualche tempo fa, l’avvocato Agnelli affermava che “forse quello che è mancato all’Italia è stato un governo Thatcher”. Parole che possono risuonare strane, per l’immagine della signora Thatcher, sempre un po’ castigata per i suoi atteggiamenti euroscettici e per certi superdecisionismi nel nostro Paese non sempre graditi. Tuttavia il revival liberale, dopo l’epoca di statalismo e di sbandamento a sinistra che ha caratterizzato gli anni Sessanta e Settanta, si deve proprio alla signora Thatcher che ha rappresentato sulla scena mondiale uno di quei punti di svolta in cui improvvisamente dei concetti, fino a quel momento assolutamente “out”, diventano “in”. Mi riferisco per esempio al fatto più eclatante, rappresentato dalle privatizzazioni: fino alla fine degli anni Settanta questa parola era quasi una bestemmia e la tendenza era nella direzione opposta. Tutti nazionalizzavano, e di restituire al privato non se ne parlava proprio; perfino in Gran Bretagna nell’alternanza tra laburisti e conservatori, i laburisti nazionalizzavano, e i conservatori quando ritornavano al potere mantenevano più o meno intatte le cose.

Credo che questo contributo sia stato fondamentale, perché oggi a privatizzare è il mondo intero, perfino la Cina comunista e il Sud America e negli ultimi anni, in Europa, la privatizzazione è stato il sale della conversione delle economie dell’Est da un’economia di comando a un’economia di mercato.

Le condizioni della Gran Bretagna nel momento in cui la signora Thatcher prese il potere non erano buone; vigeva allora l’espressione, per definire il Regno Unito, “il grande malato dell’Europa”, perché stava soffocando sotto una combinazione di statalismo (le miniere, le acciaierie, e la maggior parte dei servizi) e di tasse elevate, con l’effetto ben noto di dissuadere dal lavorare e dall’intraprendere, perché l’utilità marginale non era sufficiente. Ultimo elemento negativo era la caduta del Paese in una forma di abulia, conseguente in parte alla perdita dell’Impero, in parte alle condizioni economiche poco favorevoli in cui tutti erano costretti a vivere.

I cardini della riforma thatcheriana nei suoi aspetti di liberalizzazione sono stati le privatizzazioni, compiute in modo molto intelligente e articolato, non soltanto con l’obiettivo di fare cassa, come da noi, cioè di cercare di risanare il debito pubblico o di togliere i boiardi di Stato dalle posizioni di comando, ma anche con lo scopo di creare una nuova mentalità nella gente. Quando furono nazionalizzate le grandi aziende britanniche (la British Telecom, la British Airways) la proprietà di queste azioni fu diffusa far il numero più vasto possibile di cittadini: si arrivò addirittura a due milioni di nuovi azionisti, attirati con una combinazione di prezzi molto bassi, di incentivi e soprattutto con una molto abile propaganda sui vantaggi del privato rispetto al pubblico. Il risultato è provato: praticamente 17 anni di ininterrotto governo dei conservatori, che sostanzialmente equivalgono a quello che ritengo debba essere un partito liberale moderno.

Vendendo le azioni e coinvolgendo tanta gente si è riusciti a interessare un gran numero di persone alla rinascita del Paese e, in questo modo, si è creato una specie di anticorpo contro la mentalità di sinistra diffusasi ampiamente negli anni precedenti. Alla privatizzazione delle aziende, che peraltro non hanno fruttato somme stravaganti, in tutto credo centomila miliardi, somma paragonabile alle privatizzazioni italiane quando saranno a regime, si è accompagnata una vendita massiccia delle case di proprietà dello Stato, e soprattutto degli enti locali. Si sono trasformati degli affittuari che avevano poco interesse alla conservazione delle loro abitazioni, che comunque dipendevano dalla amministrazione pubblica, in piccoli proprietari che volevano riqualificare le loro case e nello stesso tempo i quartieri dove abitavano.

Il secondo punto per cui la signora Thatcher ha occupato un posto non irrilevante nella storia è stato quello di avere ridato le sue giuste funzioni al potere sindacale e di aver aperto la strada a quella liberalizzazione del mercato del lavoro che oggi fa sì che in Gran Bretagna ci sia circa la metà di disoccupati rispetto al resto di Europa.

In Gran Bretagna il potere sindacale aveva raggiunto la sua sublimazione, le Trade Unions cioè non soltanto erano le padrone delle fabbriche, ma anche del partito laburista: il loro voto era istituzionalizzato all’interno del partito, che peraltro si chiama Labour Party, ed era determinante per la scelta dei leader e per l’esito dei congressi, rischiando di condizionare in modo abbastanza corporativo il più consistente partito di sinistra della Gran Bretagna. Gli espedienti con i quali si è ridimensionato il potere sindacale furono relativamente semplici. Furono cioè passate alcune leggi che condizionavano il diritto di sciopero al verificarsi di certe condizioni. Quella fondamentale era che nessuno sciopero poteva essere proclamato senza il consenso degli iscritti del sindacato, cioè si era tolto alla burocrazia sindacale il potere di proclamare degli scioperi senza che la loro base fosse d’accordo, e l’accordo non si doveva raggiungere in assemblee per alzata di mano, ma attraverso il voto segreto.

Nel Paese dove si scioperava di più, tuttavia era maturato un clima in cui la riforma del sindacato ha avuto anche il consenso dell’opinione pubblica, un clima che a mio avviso è stato sfiorato molte volte anche in Italia, ma nessuno (neanche Berlusconi) ha avuto il coraggio di prendere questo toro per le corna. Invece lì fu preso, con un confronto drammatico, durato 14 mesi, tra il sindacato dei minatori e il governo quando si trattò di affrontare un altro tabù, le miniere di carbone. Queste avevano fatto la fortuna della Gran Bretagna durante la rivoluzione industriale, ma in seguito alla scoperta delle miniere a cielo aperto in Sudafrica e nel Kentucky erano diventate antieconomiche. Contro la loro chiusura il sindacato resistette più di un anno e il Paese passò l’inverno praticamente al freddo. Alla fine il governo vinse, e questo fu il segnale decisivo; il ridimensionamento sindacale ha avuto effetti a cascata, perché anzitutto ha consentito, se vogliamo in forma autolesionistica per i conservatori, la trasformazione del partito laburista da partito corporativo della classe operaia supertutelata in partito socialdemocatico moderno e aperto alle riforme, e ha consentito anche all’opposizione di prendere più facilmente atto delle trasformazioni sociali e adeguarsi. In secondo luogo ha consentito la liberalizzazione del mercato del lavoro che in Gran Bretagna è il più libero all’interno dell’Unione Europea, con alcuni inconvenienti che definirei liberali, cioè ha rimesso il lavoro dipendente a rischio e grazie a tagli della giungla burocratica si è introdotto tutto quell’insieme di strumenti che consentono l’utilizzazione del lavoro in maniera conforme alle esigenze del mercato e della globalizzazione. In altre parole nessuno è più sicuro del proprio posto di lavoro in Gran Bretagna, però trovare un lavoro è molto più facile. Un effetto negativo che si è rimproverato a questa riforma è di aver abbassato leggermente la retribuzione media: mentre probabilmente non c’era lavoro per tutti coloro che erano sul mercato alla tariffa x, quando si è scesi al 95% di x il mercato del lavoro stesso si è allargato, e continua ad allargarsi.

La terza grande riforma che si inquadra in questa svolta liberale della Gran Bretagna è stata quella di consentire una molta maggiore elasticità nelle attività. Oggi sappiamo bene che chiudere un’impresa o trasferirla è in molte parti d’Europa una cosa difficile, cioè un elemento frenante dello sviluppo e condizionante dell’evoluzione naturale dell’economia. Ebbene, nello spirito liberale e liberista è stata fatta piazza pulita di tutto ciò, e il risultato è stato, in una prima fase, una deindustrializzazione del Paese, in quanto il Paese a quei livelli e con i vincoli che aveva, non rimovibili in breve tempo, non era più conveniente per molte attività e si è verificato un trasferimento dall’industria al terziario. Però, a processo completato, si è ricominciato da capo a investire e si è assistito alla scomparsa di settori maturi come il tessile e alla nascita di industrie invece proiettate verso il futuro, con grandissimi investimenti stranieri, soprattutto asiatici.

Infine, c’è stata la grande rivoluzione fiscale, avvenuta contemporaneamente in altri Paesi, ma di cui la Gran Bretagna è stata la pioniera. La formula che l’opposizione politica italiana applicherebbe se tornasse al potere, è appunto quella inglese e americana di ridurre l’imposizione fiscale, lasciando a disposizione degli operatori economici un maggior numero di risorse e lasciando che con le agevolazioni fiscali giuste per dirigere questo flusso di investimenti provvedano allo sviluppo dell’iniziativa privata e alla crescita dell’occupazione.

Questa formula è stata quella che dopo 30 anni ha prodotto risultati sicuramente molto positivi, soprattutto in quei settori dove la libertà di operare è particolarmente importante. Non è un caso che la piazza finanziaria di Londra sia la seconda dopo New York, perché in Gran Bretagna a un certo punto avvenne un fenomeno che fu chiamato “Big Bang”, la liberalizzazione ex abrupto praticamente di tutti i mercati finanziari, con l’applicazione ante litteram di quello che oggi noi faticosamente cerchiamo di realizzare per tenere dietro agli altri.

Ma l’impulso nella direzione liberale del thatcherismo va molto al di là di questo, perché ha toccato proprio la struttura sociale e la mentalità della gente, prima abituata a essere dipendente dallo Stato, ora invece dotata di autonoma iniziativa e responsabile per se stessa. Ha ricostituito un tessuto economico, sia pure diverso da quello precedente, ma indubbiamente di grande vitalità, e poi, soprattutto, ha spostato il centro di discussione che prima del 1980 era molto più a sinistra. Allora, cioè, non si discuteva sulla nazionalizzazione o la privatizzazione, ma su che cosa nazionalizzare. Oggi la discussione si è spostata su un altro terreno, molto più in direzione del liberalismo, in tutti i settori, e il risultato è stato che quando i laburisti sono tornati al potere per la giusta legge dell’alternanza, si sono trovati su un terreno prima a loro ignoto, perché quando lo persero, nel 1979, la privatizzazione era una bestemmia mentre adesso continuano esattamente il lavoro impostato dalla signora Thatcher. Tony Blair e i suoi omologhi europei – D’Alema e Jospin – quando si incontrano in realtà parlano diversi linguaggi, perché la Gran Bretagna ha alle spalle 20 anni di profonda rivoluzione liberale alla quale nessuno ha la minima intenzione di rinunciare, mentre noi invece non ci siamo ancora arrivati.

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