Lezione della Scuola di Liberalismo di Roma – 6 novembre 1997

Quando si è congratulato con il presidente D’Alema per i lavori della Bicamerale, il presidente Scalfaro è incorso in una svista: ha detto che questa commissione è la prima che abbia prodotto un testo per il Parlamento. In realtà non è così, perché la commissione Bozzi elaborò un testo, addirittura con revisione di alcune parti della parte prima della Costituzione. Ma questo testo non riuscì però a iniziare il cammino nelle aule parlamentari: era una commissione studio, non una commissione referente. I risultati del lavoro della Commissione furono tradotti in diversi progetti di legge, a unica firma del presidente Bozzi, ma si arenarono immediatamente.

Quindi un risultato fu prodotto, ma perché non si riuscì ad andare avanti? Qual è la differenza rispetto ad oggi? E’ che allora non ci fu l’impegno diretto delle grandi forze politiche le quali inizialmente avevano progettato la Commissione con il compito e la volontà di produrre una riforma. Ma a poco a poco avvenne la separazione dei due tavoli, cioè il tavolo del Governo e il tavolo delle Riforme Costituzionali: la cosa non funzionò, e le tensioni che si erano venute a determinare sul tavolo politico si riversarono anche sul tavolo delle riforme. Per sottolineare le differenze mancarono due cose: la capacità di tenere distinti questi due tavoli (ricordiamoci che la Commissione lavorò nel periodo in cui fu varato il cosiddetto decreto di San Valentino, decreto che tagliò i punti della scala mobile, che determinò la reazione dei sindacati, dell’allora partito comunista, un referendum, quindi tensioni che si propagarono da una all’altro tavolo). Per seconda cosa mancò il coraggio delle forze politiche di avviare un processo di autoriforma. Ricordiamo tutti con grande simpatia, ammirazione e commozione il compianto Aldo Bozzi. Ebbi modo di lavorare strettamente con l’allora responsabile del gruppo comunista della Commissione e lavorai quindi strettamente con Aldo Bozzi, condividendo speranze ma poi anche delusioni per il risultato della Commissione.

C’era stata inizialmente una proposta coraggiosa di Ciriaco De Mita, che aveva proposto in quella sede una riforma elettorale che allora era troppo avanzata e oggi troppo arretrata! La riforma elettorale era un sistema proporzionale con premio di maggioranza, che somiglia molto alla proposta di riforma che è stata elaborata nella famosa cena di casa Letta. Oggi la riteniamo arretrata perché ci fa fare dei passi indietro rispetto alle conquiste del collegio uninominale, i due referendum del giugno 1991 e dell’aprile 1993, ma allora era troppo avanzata rispetto ai rapporti politici e alla situazione complessiva del nostro Paese.

Il nostro Paese nel 1983-84 era attraversato da quello che è stato definito il “Muro invisibile di Berlino” che non facilitava sistemi elettorali che producessero schieramenti alternativi tra di loro. Certo, Enrico Berlinguer e Alessandro Natta avrebbero dovuto avere più coraggio; alcuni di noi desideravano che così fosse e invece, sebbene fosse stata abbandonata l’idea del compromesso storico e accettata la strategia dell’alternanza, non si aveva il coraggio di superare la comoda nicchia del sistema proporzionale che tanti frutti aveva dato alla sinistra e all’opposizione. Non c’era ancora la capacità e la volontà di raccogliere la sfida. Ma c’è da dire anche che Ciriaco de Mita non insistette sulla sua proposta, proprio perché temeva di mettere in pericolo il tavolo del Governo. La storia si ripete: i condizionamenti hanno prodotto adesso alcuni limiti nella Commissione D’Alema, compreso la pessima legge elettorale che è stata elaborata.

Inoltre il partito socialista – che a cavallo degli Anni Settanta e Ottanta aveva elaborato un progetto di grande riforma costituzionale lanciato da Craxi e da Amato – al dunque non presentò un progetto di grande riforma nella Commissione Bozzi, ma un solo punto pose all’ordine del giorno, con chiara volontà di mettere in crisi le forze politiche, quello dell’inserimento del principio del voto palese direttamente nella Costituzione. Ci fu un discorso di Vassalli e di Andò che genericamente parlò di semipresidenzialismo. Dissero no alla riforma elettorale di De Mita, non portarono avanti proposte né di grande né di piccola riforma, insistettero solo su un punto che poi determinò la divaricazione delle forze politiche e di conseguenza anche l’esaurimento della Commissione Bozzi.

Credo che – tenuto conto di questi condizionamenti (teniamo presente che non era ancora avvenuta la caduta del Muro di Berlino, non c’era stato il referendum, non c’era Tangentopoli) – quel testo sia il massimo che quel periodo storico poteva consentire di produrre. Con alcune soluzioni a mio avviso più avanzate di alcune della Commissione d’Alema. Penso, ad esempio, al voto di fiducia al solo presidente del Consiglio previsto nel testo della Commissione Bozzi; penso alla formula relativa alla decretazione di urgenza che è stata copiata malamente nel testo varato dalla Commissione nei giorni scorsi; penso, per entrare in un argomento completamente diverso rispetto a quelli che sono stati trattati in questi ultimi mesi, all’art. 80 della Costituzione relativo al controllo del Parlamento sulla politica estera. La Commissione Bozzi operò una distinzione tra i trattati e gli accordi, sottoponendo al controllo parlamentare anche gli accordi internazionali (quelli di particolare rilievo politico non solo i trattati come fa invece il testo in discussione in questi giorni alle Camere).

Ma un punto ho rivisitato con interesse: sono le proposte di riforme della parte prima della Costituzione. Da alcuni anni a questa parte è diventato quasi un luogo comune che bisogna toccare solo la parte seconda della Costituzione. Invece, la Commissione Bozzi molto tranquillamente e senza problemi l’avrebbe ritoccata. Mi sono domandato perché questo sia potuto avvenire. Lavorò su molti punti della parte prima della Costituzione: l’art. 9 per quanto riguarda il rilievo dato all’ambiente; l’art. 21 sull’informazione (un articolo vecchiotto che parla di libertà della manifestazione di pensiero, e dove non c’è riferimento all’informazione). Invece nel testo della Commissione si parla di diritto di informare, di ricercare l’informazione, il diritto ad essere informati. Si richiede che la legge ponga dei limiti alle concentrazioni nel settore dell’editoria e delle informazioni. Sono norme modernissime. Quindi come mai allora si poteva tranquillamente dire “tocchiamo anche la parte prima della Costituzione”, mentre ora invece è tabù? Probabilmente una maggiore fiducia reciproca tra le forze politiche. Questa è una risposta troppo ottimistica, ci penserei un attimo prima di darla, tenuto conto che invece per quanto riguarda il sistema politico, come dicevo, la sfiducia era forte.

Reso il dovuto omaggio alla Commissione Bozzi (che a mio avviso è stata di valore e di particolare pregio, ma che non ha potuto affrontare quei temi che invece poi la spinta referendaria avrebbe reso possibile) voglio ricordare un tentativo che fu fatto con la cosiddetta mozione Scoppola che firmammo in diversi componenti della Commissione – c’erano Mario Segni, Lipari, e altri – e che avrebbe portato a una modifica del sistema elettorale secondo il modello tedesco. Fu l’ultima occasione offerta ai partiti di poter riformare se stessi. Fu un’occasione che non venne colta, che si tentò di riprendere poi con la Commissione De Mita-Iotti, ma ormai era troppo tardi, c’era già stato il referendum sulla preferenza unica, c’era già Tangentopoli, e non era più possibile portare avanti quel tentativo di riformare. Diceva Aldo Bozzi: “E’ impresa difficile quell’impresa che rende impossibile al medico il curare se stesso”. Adesso i tempi sembrerebbero più propizi, le forze politiche hanno avuto delle spinte diverse, sono maturate delle nuove condizioni, io stesso ritengo di avere maturato posizioni diverse rispetto a quelle pur avanzatissime della Commissione che ebbi modo di esprimere.

Qual è il cammino della Commissione D’Alema? Credo che vada preso atto che qualche luce si sta cominciando a vedere, ma ci sono ancora molte ombre. E’ positivo che ci sia un impegno delle forze politiche per questo processo riformatore, anche se ad un maggiore impegno di Fini ho visto che corrisponde un qualche disimpegno di Berlusconi, che invece all’inizio sembrava molto più propenso ad abbracciare questa strada. Credo però siano state intraviste le strade da percorrere: federalismo e rafforzamento dei poteri del Governo, anche attraverso le elezioni dirette del presidente della Repubblica. Ma credo anche che non si abbia il coraggio di percorrere fino in fondo la strada necessaria. Per esempio: si dice che c’è una scelta federale, addirittura un titolo della parte dell’ex titolo quinto è intitolato “Ordinamento federale dello Stato”. In realtà non c’è nessuna scelta federale; mi sento di affermare che si è verificato un passo indietro rispetto all’attuale ordinamento regionale. C’è un forte sviluppo delle autonomie municipali, ma sappiamo che il municipalismo è l’altra faccia del centralismo. Si diceva il modello tedesco, all’inizio, poi si è regrediti sul modello spagnolo, in realtà il modello che viene fuori è il modello di tipo francese: forte presenza dei Comuni, addirittura presenza dei Comuni in una delle due Camere, come in Francia al Senato, ma ripeto, questo non ha nulla a che vedere con il federalismo.

Il federalismo che viene sbandierato, in realtà non c’è e si tende invece a mascherare una scelta tendenzialmente presidenzialista che viene fatta dicendo: “è solo l’elezione diretta di un presidente garante”. Per quanti sforzi io abbia fatto, cercando qualche esempio in qualche piccola nazione dell’Europa, non riesco a credere e a pensare che un presidente della Repubblica eletto direttamente dai cittadini, con una competizione che certo sarà fortemente bipolare, con una competizione a doppio turno con altri candidati, parlerà del modo migliore di fare il garante, del modo migliore di fare il notaio, del modo migliore di presiedere il Consiglio Superiore della Magistratura. Sarà una competizione politica in cui si parlerà di tutti i temi che interessano la collettività, si parlerà di occupazione, di lotta alla criminalità organizzata, del modo migliore di combattere il debito pubblico, il modo migliore di stare in Europa… Ma una volta eletto, questo presidente, tanto più se aspirerà a essere rieletto, pretenderà di governare e pretenderà di tenere fede alle promesse che avrà fatto in campagna elettorale. C’è però il tentativo di “rinchiuderlo” in una posizione di mera garanzia. Secondo me ha ragione chi approva questa formula con la riserva mentale di dire: “tanto poi i poteri se li prende a spallate”; credo che si ispiri ai principi del costituzionalismo classico. Il costituzionalismo liberale non può accettare una decisione con una riserva mentale di questo genere.

Avrei preferito un presidente del Consiglio eletto direttamente dai cittadini, perché penso che il nostro Paese si stia evolvendo verso una democrazia immediata, in cui i cittadini siano portati a eleggere chi governa. Però se si ritiene che debba essere il presidente della Repubblica, secondo la scelta che è stata fatta grazie all’ingresso sotterraneo dei leghisti, allora gli si devono dare effettivi poteri di governo e non soltanto di influenza sul Governo. Si dice che la politica estera e la politica della difesa potranno essere assunti da questo presidente della Repubblica; ma in che modo? Presiedendo il Consiglio supremo della politica estera e della politica della difesa che richiama, anche nella denominazione stessa, l’attuale Consiglio superiore della difesa. Sappiamo tutti, però, che non è un organo di governo, ma un organo di consultazione fra quanti a livello istituzionale sono interessati alla politica della difesa. Chi rappresenterà l’Italia nei vertici internazionali? Chi rappresenterà l’Italia nei vertici europei, o nei vertici del G7? Compreranno il biglietto contemporaneamente il presidente del Consiglio e il presidente della Repubblica e si presenteranno tutti e due alla sede del vertice?

Questi sono tutti temi e problemi che vanno affrontati direttamente nella Costituzione, avendo il coraggio di fare scelte ben precise. Sempre con riferimento al capo dello Stato, questi equivoci, secondo me, permangono anche per quanto riguarda il tema della presidenza del Consiglio superiore della magistratura. Si è tanto discusso e litigato sulla divisione in due sezioni del CSM (una per l’attività inquirente dei pubblici ministeri, l’altra per i giudicanti) e sono stati portati argomenti a favore e argomenti contrari. Non entro nel merito della questione, ma mi domamdo perché nessuno abbia posto il problema se il presidente della Repubblica eletto direttamente possa presiedere un Consiglio superiore della magistratura, sia esso suddiviso in due sezioni o in un’unica sede. Perché nessuno l’ha posto? Perché un presidente che avrà una carica politica altissima, sarà portatore di una parzialità politica fortissima, perché ha vinto le elezioni contro qualcuno, e pretenderà di vincere la volta successiva contro altri candidati.

I presidenzialisti sanno che il presidente della Repubblica disegnato dalla Bicamerale è molto debole, quindi cercano di evitare di togliergli altri poteri. Ne ha così pochi. Coloro i quali invece erano su posizioni antipresidenzialiste (penso ai popolari e in parte anche al PDS) hanno scelto non si capisce bene cosa. Coloro i quali hanno cercato di contenere le funzioni di governo del presidente della Repubblica, puntando su un presidente di garanzia, non possono contraddire se stessi sostenendo che il CSM non può essere presieduto da un presidente della Repubblica eletto direttamente, perché partono dal presupposto che si tratti di presidente di garanzia.

La conclusione quale sarà? Sarà che un Consiglio Superiore presieduto da un presidente eletto direttamente dal popolo – ecco il tema che Giuseppe Bozzi ci invitava a considerare – potrà rappresentare un grave pericolo per l’autonomia della magistratura e quindi anche per i diritti dei cittadini. Perché delle due l’una: o questo presidente è un presidente di maggioranza, quindi un presidente che è saldato con la maggioranza, e allora cercherà di usare la sua influenza sulla magistratura per rafforzare la maggioranza; oppure avremo il fenomeno della “coabitazione” (e cioè un presidente espressione d’una maggioranza diversa da quella parlamentare), e allora si avrà il sospetto o la possibilità che questo presidente utilizzi il potere per destabilizzare la maggioranza, e magari, se riuscirà ad avere una forte influenza sulla magistratura, per far fuori in anticipo qualche suo probabile futuro avversario. Ma c’è anche da preoccuparsi di un eventuale presidente della Repubblica animato da ansie giustizialiste: venendosi a saldare con i pubblici ministeri, questo presidente potrebbe anche rafforzare le spinte giustizialiste insite in qualche settore della magistratura inquirente.

Un costituzionalismo liberale (e quando dico costituzionalismo liberale non voglio dare un connotato ovviamente politico: il costituzionalismo non può non dirsi liberale. Se bisogna trovare un padre al costituzionalismo moderno quello è John Locke, che è anche uno dei padri del liberalismo) non può non richiedere che, nel momento in cui si formulino norme costituzionali, queste tendano a regolare il potere, non solo per limitarlo e contenerlo, ma anche per trarne tutti i benèfici influssi. Il potere pubblico può avere quella forza benefica o distruttiva che hanno le acque: se sono irregimentate possono portare effetti benefici; se non sono regolate possono determinare effetti disastrosi. Ecco perché un po’ più di spirito liberale alla Commissione Bicamerale, e quindi al Parlamento che si appresta a varare il testo definitivo, probabilmente non guasterebbe.

Vorrei fare qualche altra raccomandazione alla Commissione. Per quanto riguarda il bicameralismo, non sarebbe male andarsi a leggere “Il progetto di riforma del bicameralismo della Commissione Bozzi” (scritto con la collaborazione di Gianfranco Ciaurro), molto più avanzato di questo pasticciato bicameralismo che complicherà enormemente il sistema delle fonti. Il vecchio bicameralismo aveva mille difetti, ma almeno era chiaro: una legge deve essere approvata con un identico testo dalle due Camere. Qui invece avremmo leggi soltanto monocamerali, leggi che dovranno essere approvate da entrambe le Camere, leggi che dovranno essere approvate dalle Camere nella composizione normale, leggi che dovranno essere approvate da entrambe le Camere nella composizione allargata con la presenza dei rappresentanti delle Regioni e degli enti locali. Sarà un ginepraio. Oggi, quando voglio aiutare uno studente un po’ in difficoltà, gli chiedo il procedimento legislativo, perché so che lo studente riesce a parlare perché è una domanda facile. Quando sarà approvata la riforma, questa diverrà una domanda difficile, che stronca le gambe allo studente. Ma soprattutto complicherà enormemente la nostra vita, perché quando si vedrà inserita una norma, un emendamento e cambierà il procedimento della legge, seguiranno mille discussioni in Parlamento: la legge non è più monocamerale, adesso diventa bicamerale, bicamerale integrata… E i cittadini avranno mille motivi in più per ricorrere alla Corte Costituzionale.

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