Lezione della Scuola di Liberalismo di Milano – 25 febbraio 2000

Viviamo in una contraddizione totale: da un verso la realtà è ormai globalizzata; l’informazione è senza vincoli e bandiere; le notizie si diffondono attraverso TV satellitari, Internet e altri mezzi tecnologici. Dall’altro, nel nostro piccolo “cortile” nazionale abbiamo una legislazione che ci fa tornare indietro di tanti anni.

E’giusto parlare di libertà di stampa ? Dal punto di vista legislativo, ma anche dal punto di vista della pratica comune viviamo in un’antica situazione. L’Ordine dei giornalisti è regolato da una legge che risale al 1963, anno in cui si poteva liberamente parlare di libertà di stampa, in quanto la carta stampata predominava su altri mezzi quali la radio e la TV, appena all’inizio e retta da un sistema di monopolio. Quindi la normativa riguardante l’esercizio della professione giornalistica si riferiva alla redazione dei giornali nel settore della carta stampata.

Oggi tutto è cambiato e quindi le norme dovrebbero cambiare; e invece sono sempre ferme e devono rincorrere gli eventi determinati dallo sviluppo tecnologico. Marx diceva: “Se cambiano i mezzi di produzione cambia la società e se cambiano anche i modi di produrre cambia anche a società”. In realtà è avvenuto l’esatto contrario: non sono i mezzi di produzione che cambiano la società, ma è lo sviluppo delle tecnologie e del mercato a costringere al cambiamento tanto la società quanto i modi di produrre. Ci troviamo in una società nuova ma, per quanto riguarda uno degli aspetti determinanti di questo rinnovamento (la famosa “società aperta” teorizzata da Popper), noi di questa società abbiamo l’anima – e cioè la libertà di stampa, di espressione, di comunicazione – ma questa di fatto è regolamentata in maniera antica e superata.

Uno dei grandi gap del nostro Paese è stata la difficoltà di modificare la propria legislazione passando da un sistema chiuso, per quanto riguarda l’informazione, non legata solo alla carta stampata, a un sistema aperto. In realtà questo è stato ed è un Paese che si porta appresso l’eredità dell’esperienza totalitaria. Abbiamo avuto per lunghissimo tempo un monopolio pubblico radiotelevisivo, retaggio del periodo nel quale esisteva solo un partito che aveva il diritto di comunicare.

In realtà, come disse una volta Giuliano Amato quand’era presidente del Consiglio, all’uno subentrarono in diversi e in parecchi, ma la realtà e la sostanza rimase la stessa. Quindi il monopolio pubblico radiotelevisivo è durato per lungo tempo come forma di controllo della società italiana attraverso lo Stato e i partiti, che si facevano Stato e si identificavano con esso, e come limite della libertà di comunicazione e di espressione.

Queste libertà sono il cuore della democrazia e il cuore della società aperta. Come abbiamo visto, la battaglia per la libertà d’antenna è stata “quasi” vinta, perché esiste ancora un meccanismo per cui l’arrivo di capacità straniere in un mercato come il nostro (pensiamo al “caso Murdoch”) fa scattare i vecchi meccanismi protezionistici, per cui abbiamo scoperto che le forze politiche che difendevano ad ogni costo il monopolio pubblico contro gli operatori privati italiani sono diventati i loro difensori contro il tentativo di irruzione nel mercato italiano dei “predoni” stranieri. Ci siamo trovati di fronte a una sorta di difesa dell’autarchia radiotelevisiva, che poi non è difesa di un meccanismo di prerogative di peculiarità nazionali, ma è difesa di piccoli orticelli, quei condizionamenti appunto della libertà di stampa che invece dovrebbero essere rotti ed aperti.

E’ dunque necessario, rispetto al fenomeno globale e all’arretratezza delle leggi, adeguare le legislazioni alle novità della tecnologia. Questa è la strada su cui ci si sta incamminando, sia pure con grande lentezza: da un lato i tentativi di modificare la legge sull’Ordine dei giornalisti (tra referendum abrogativi e la riforma su cui si sta lavorando da decenni); dall’altro, la progressiva apertura e superamento dei meccanismi protezionistici. E’ assurdo che, nel momento in cui l’Italia entra in un sistema europeo, noi mettiamo barriere ai nostri confini non alle merci ma alle idee perché non vogliamo altri protagonisti nel nostro mercato.

Ci sono però altri aspetti che mettono in discussione la nostra libertà di stampa: nella società aperta che auspichiamo ci dovrebbe essere un mercato della comunicazione libero, aperto, non condizionato e non protetto; e invece abbiamo il mercato della comunicazione più protezionistico esistente sulla faccia della terra. Nel settore radiotelevisivo siamo in pieno oligopolio con due o tre grandi operatori che fanno muro contro altri. Il loro obiettivo non è solo quello di dividersi le quote di mercato in termini economici, ma anche in termini politici.

Nella vecchia carta stampata, poi, il mercato è libero e aperto solo formalmente, ma nei fatti è condizionato da grandi gruppi, proprietari di grandi testate, che non si dedicano esclusivamente all’editoria. Sono gruppi imprenditoriali, impegnati su tutt’altro versante, che usano la stampa come sistema di tutela dei loro interessi. Il che è assolutamente legittimo. Credo che ognuno debba essere libero di salvaguardarsi come meglio crede, sempre nel rispetto delle leggi. E credo sia lecito consentire a gruppi imprenditoriali di utilizzare le proprie risorse per creare strumenti atti a difendersi.

D’altro canto, lo sviluppo della stampa italiana è stato sempre legato a questi interessi, dal Corriere della Sera a Il Messaggero, legati a quei capitani d’industria che, attraverso i giornali, pretendevano ed ottenevano una politica protezionistica da parte del governo. L’intervento del 1915 fu sicuramente favorito dagli interessi di alcuni gruppi economici e industriali attraverso i loro giornali. Non c’è di che scandalizzarsi: il problema sorge quando tali interessi vengono ammantati dalla libertà di mercato. In realtà il mercato della carta stampata non è affatto libero ma è condizionato da ritardi storici nelle strutture di distribuzione, che favoriscono le grandi testate. Questi ritardi vanno superati per assicurare, da un lato, la libertà di espressione e di stampa e, dall’altro, il diritto dei cittadini a essere correttamente informati.

Vorrei a questo punto soffermarmi sul rapporto perverso che si è creato tra giustizia e comunicazione. Si tratta di una questione di cui si comincia ad avere consapevolezza. Molto spesso viene strumentalizzata e utilizzata come elemento di battaglia politica, ma io, in questa sede, vorrei analizzare il fatto che la comunicazione è stata utilizzata in maniera distorta come strumento e come mezzo del processo penale. La libertà di stampa è un aspetto della libertà complessiva dei cittadini e, nel momento in cui viene utilizzata per coercizzare queste libertà, non è più un aspetto della libertà di stampa ma diventa coercizione.

Sotto la spinta dei fenomeni politico-sociali dell’inizio degli anni Novanta (che hanno visto il ritrarsi della politica dalle posizioni tenute secondo lo schema di Montesquieu, quello della separazione dei poteri), si è assistito a un allargamento del potere giudiziario. Ciò si è verificato grazie all’uso accorto e intelligente dei mezzi di comunicazione di massa da parte dei magistrati, i quali non li hanno utilizzati solo per cavalcare l’ondata popolare (che chiedeva giustamente innovazione, pulizia, lotta contro la corruzione), ma anche come strumento per cambiare alcune regole di fondo del vivere civile e delle norme e delle leggi che regolano l’esistenza dei cittadini.

Di qui, quello che vi dicevo: e cioè il cambiamento del processo. Il pubblico ministero apre un’inchiesta; i giornalisti, sulla scia dell’inchiesta del pubblico ministero, forzano la mano su questa inchiesta; l’uso forzato dei media viene utilizzato dal PM per arrivare alle verità, che però non sono verità processuali ma preprocessuali. Di fatto il dibattimento non si svolge nelle aule dei tribunali ma precede il processo sui giornali, per radio e in tivvù. In questo modo si arriva a condanne mediatiche che trovano scarsi riscontri nelle verità processuali. Ma è proprio attraverso i processi mediatici che è stata eliminata una classe dirigente, che si è avuto un vero e proprio cambio dei gruppi di potere, che è stata rivoluzionata la classe politica italiana. Tutto questo iraddiddio è stato creato in virtù dei media, della comunicazione, della liberà di stampa.

Nel momento in cui i processi da mediatici sono diventati giudiziari, tutte le “condanne virtuali” hanno trovato riscontri bassissimi nelle aule dei tribunali. Tant’è che la gran massa delle iniziative processuali su mani pulite ha prodotto solo due carcerazioni: Armanini e Cusani. Una serie di processi già conclusi con condanna sul terreno mediatico, adesso sta andando in prescrizione. Qualche altro processo si è esaurito in primo grado secondo l’indicazione avuta dalle condanne mediatiche, ma arrivato al secondo grado ha avuto sentenze ribaltate.

Il problema è ora capire se questo meccanismo possa funzionare al contrario, se possa servire per realizzare tranquillamente uno Stato totalitario, se possa portare alla restaurazione di Craxi. Se ci sono queste possibilità significa che il meccanismo è perverso, e se tutto ciò è reso possibile dalla formale esistenza della libertà di stampa vuol dire che questa libertà contiene elementi di forte pericolosità. Questo non significa che, per eliminare il fenomeno, si debba ridurre la libertà di stampa. Semmai è vero il contrario: cioè, in chiave liberale, si deve aumentare il tasso di libertà e si debbono eliminare tutti quei meccanismi che creano le condizioni per dar vita a un regime sia esso di destra, di centro o di sinistra. Un liberale si preoccupa del regime e non del suo colore. E’ quindi necessario non solo adeguare le norme esistenti alle tecnologie, ai processi e allo sviluppo tecnologico, ma è anche indispensabile rivisitare tutte quelle norme attualmente esistenti che producono deviazioni pericolose al tessuto economico, politico e giudiziario del Paese.

Un altro esempio è dato dalla legge sulla privacy. Questa nasce dall’esigenza di difendere l’individuo e dalla preoccupazione di non esporre nessuno al pubblico ludibrio. Sì, è vero: la penna uccide più della spada. Mi è capitato di fare un dibattito al Consiglio Superiore della Magistratura, dove era stato organizzato un seminario con 200 PM: insieme al presidente della Federazione della Stampa ho parlato della legge sulla privacy e dei casi in cui la stampa si rende responsabile dell’uccisione morale di un individuo. Abbiamo citato òa storia di quel signore di Milano che venne accusato di aver stuprato la propria bambina perché il medico aveva riscontrato segni di lesione. La bambina dopo quattro mesi morì, perché quei segni erano conseguenza di una gravissima forma di tumore. Ma nel frattempo il padre era stato distrutto dai media. Durante la discussione un PM ci disse: “In questo caso sono stati i giornalisti a sbagliare e non il giudice che emise l’avviso di garanzia nei confronti del padre”. In realtà la responsabilità è un po’ di tutti. E’ quindi giusto che, rispetto a fenomeni di tal fatta che riguardano i singoli cittadini, esistano norme sulla privacy.

Però queste norme che – ripeto – partono da esigenze oggettive e da necessità che devono essere assolutamente rispettate, rischiano di diventare norme liberticide. Questa legge viene infatti applicata anche nei confronti di personaggi che hanno una vita pubblica e che devono essere sottoposti al giudizio della pubblica opinione attraverso il controllo della stampa. Negli USA la stampa è definita “il cane da guardia della democrazia”. Da noi la normativa sulla privacy rischia di diventare uno strumento di copertura delle esigenze di quelli che hanno una funzione pubblica o sperano di averla. In tal caso c’è un aspetto che i liberali devono combattere: la legge sulla privacy può trasformarsi nella tutela di questo o quell’interesse. E questo va combattuto e bisognerebbe che una corrente di pensiero liberale si imponesse per contrastare la tendenza che rischia di trasformare le democrazie liberali in regimi di democrazia autoritaria e controllata.

C’è infine la tendenza generale a trasferire sul terreno giudiziario quello che prima era un confronto esclusivamente giornalistico. Una delle conseguenze più gravi di questo fenomeno è che l’esercizio della libertà di stampa è diventato una prerogativa concessa sostanzialmente soltanto ai ricchi. Un esempio banale: la querela a un quotidiano (naturalmente, se perdono, i giornali vengono condannati a pene pecuniarie) incide diversamente se fatta a la Repubblica e al Corriere della Sera oppure a giornali più piccoli, che a volte rischiano la loro stessa esistenza. Quindi uno ci pensa due volte prima di pubblicare determinate cose. Se però tutto questo incide sulla libertà di stampa, allora il fenomeno diventa patologico e sarà necessaria una mobilitazione perché la libertà di stampa e di comunicazione venga effettivamente applicata, non con l’impunità, perché questa non è concepibile, ma con un adeguamento alle realtà di norme ormai superate.

Ma cosa fare, in pratica? Liberalizzare, cioè puntare su un maggior tasso di libertà, perché poi sarà il mercato, sarà la libertà stessa a creare automaticamente gli anticorpi. Quindi maggiori libertà per garantire la libertà. Può essere una tautologia, ma è una verità profonda: soltanto attraverso il massimo della libertà si può garantire l’applicazione corretta della libertà.

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